Ammalarsi al lavoro. E’ un fenomeno frequente. Si ammala chi produce, per usura fisica. Sta male chi lavora alla scrivania. E’ cronaca di vita quotidiana di molte, troppe persone.
Il disagio lavorativo ha tutte le sfumature delle lacrime e del voltastomaco. Insonnia, irritabilità, attacchi di panico. Effetti simili dello stress post traumatico.
Il mobbing è tra le aggressioni più subdole e violente agite dall’uomo contro l’uomo. Il genere umano sa bene come superare gli ostacoli. E una volta codificato il mobbing, l’ingegno rompe il confine della definizione e si esplorano nuove azioni di aggressione. Si apre la zona grigia: “Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro.” Il libro è di Harald Ege, psicologo del lavoro, esperto di mobbing e autore di diverse ricerche scientifiche dedicate alle malattie sociali del lavoro. Pubblicato da Franco Angeli, il testo è un’arma di difesa per chi sul posto di lavoro è vittima di attacchi orientati alla svalutazione e umiliazione della persona e finalizzati all’isolamento oppure all’espulsione dal posto di lavoro.
Nero senza sfumature.
La letteratura in materia di mobbing è ricca. Significa che il fenomeno è diffuso. To mob significa attaccare, assediare. La drammatica rappresentazione prevede tre attori protagonisti: il mobber, l’aggressore; il mobbed, la vittima e gli spettatori.
Le conseguenze sono devastanti e di lunga durata; a volte a scoppio ritardato in termini di salute psico-fisica. Anche l’organizzazione ne risente.
Le asperità relazionali fanno parte della socialità. E’ l’intenzionalità alla persecuzione a trasformare attriti, incompatibilità e incomprensioni in azioni di mobbing. Che per essere codificate devono essere reiterate con una frequenza almeno settimanale, con una durata di almeno sei mesi. E ancora: il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro, la vittima deve essere in posizione di costante inferiorità rispetto al mobber e deve essere riscontrato un intento vessatorio finalizzato e coerente. Facile scriverlo sulla carta. Difficile da dimostrare nei fatti e nelle aule dei tribunali.
“Maria (il nome è di fantasia) è branch manager di una città del nord per una società di servizi. Assunta dal direttore commerciale, conosciuto nell’azienda precedente. Dopo qualche mese il direttore commerciale, che è anche socio, viene espulso per aperto contrasto con il socio di maggioranza. La direzione inizia una epurazione dei suoi collaboratori. Fra questi, anche Maria. Si programma il trasferimento dei colleghi di Maria, tutti a tempo determinato e con impegni di famiglia, dopo averglieli messi contro. Maria continua il lavoro da sola. La direzione non la convoca più per la formazione e per le riunioni in sede con gli altri commerciali ma ogni settimana le fa richieste senza fondamento razionale. Ogni dieci giorni viene convocata a riunioni con un gruppo di colleghi in assetto da plotone di esecuzione: una fila di fucili puntati da una parte della scrivania e lei seduta da sola dall’altra. Sul lungo tavolo, telefoni con il registratore aperto e penne svelte sui blocchi a tracciare sulla carta le sue parole e a cercare di acuire il suo disagio. La lavoratrice resiste. Dopo qualche mese, senza preavviso e di notte i facchini entrano nella sua filiale e portano via i mobili. Lasciano una sedia e una scrivania. Maria comunica alla direzione via mail la volontà di sporgere denuncia alle autorità. La direzione risponde che la filiale verrà smantellata. Maria chiede un incontro all’amministratore delegato, che glielo concede. Il giorno dell’incontro l’amministratore delegato non si fa trovare. Succederà diverse volte perché Maria non si dà per vinta. Nel frattempo si è rivolta a un legale che la supporta da fuori. Poi, il collega di una filiale vicina le chiede di collaborare a un progetto. Inizia il dialogo professionale fino a che il collega la accusa di avere trafugato o perduto un importante strumento di lavoro aziendale. Maria lo ritrova: era stato distratto e abilmente nascosto dal collega. Continuano le umiliazioni fino al trasferimento finale di Maria presso la sede centrale, comunicata un lunedì mattina via mail. La sede è distante cento chilometri dalla sua filiale e il trasferimento è previsto per il giorno dopo. Maria si presenta al lavoro nella sede centrale, puntuale e pronta a prendere possesso della nuova scrivania. Che non è stata predisposta. Forse perché ci si aspettava l’eclissi della lavoratrice sotto la coperta della malattia. Velocemente si prepara una postazione. La scrivania si trova in un ufficio in fondo al corridoio di fronte a colleghe della formazione. Con le quali, nonostante il disagio e l’ostilità, Maria innesca una relazione virtuosa. La lavoratrice tiene viva la fiammella del lavoro. Continua a prendere contatto con i clienti e a rispondere alle loro richieste. E mette in atto tattiche di difesa interna per evitare che altri commerciali prendano possesso del suo terreno d’azione e dei clienti da lei fidelizzati. Fino alle battute finali, mesi dopo e per due volte, nell’aula di un Tribunale.” Attesa, resistenza, sfiancamento. Una storia di mobbing lunga quasi un anno (raccolta in una delle interviste per la rubrica Lavoro migrante, ndr) per dimostrare quanto sia difficile circoscriverlo in una classificazione teorica e, soprattutto, dimostrarlo. E quanto sia umanamente costoso contrastarlo.
Il mobbing è scivoloso come una bugia.
La zona grigia.
Le vessazioni fuori dal confine della definizione di mobbing non sono meno gravi. E’ fondamentale riconoscerle, fa notare Harald Ege.
La prima vessazione è l’umiliazione della competenza e del talento. Non solo de-mansionamento. E’ una costellazione di indicibile altro. E’ il mancato riconoscimento del potenziale professionale del lavoratore e la sua derubricazione strisciante dalla considerazione formale della dirigenza, inoculata nel sentire aziendale. In modo subdolo e vigliacco. Per un lavoratore il vento cambia direzione non sempre per motivi razionali rispetto allo scopo aziendale.
Queste modalità sono indicatori di disagio organizzativo. Le aziende malate sono pericolose come le epidemie. La malattia nuota sott’acqua. Quando azzanna è difficile risorgere sulla riva di un altro lavoro.
Sul confine del mobbing, il ghigno ipocrita della sfida dell’aggressore che si traduce così: “Se dici che è mobbing lo devi dimostrare. Contro di te una folta schiera ad implementazione: sono gli yesmen, leccapiedi e pusillanimi. Invece, sei proprio tu ad avere problemi. La tua è una fissazione.”
Straining.
Mettere sotto stress, alla lettera. Fenomeno ai confini dello stress da lavoro. Seppure articolato diversamente. L’aggressore impone l’isolamento. L’aggressore è una persona fisica mimetizzata nel mantello protettivo del ruolo organizzativo. Lo svuotamento dei contenuti del lavoro, i tempi morti dell’attesa di un incarico, la sotto-attivazione rispetto alle competenze e al talento oppure la sovra-attivazione e un impegno professionale fuori dalle competenze della vittima: sono le modalità dello straining. Che è diluito nel tempo, abbandonato allo spazio grigio della solitudine in attesa di una giornata con minore carico di angoscia. La storia di Elena, dirigente rientrata dall’assenza per maternità, è un grumo di disperazione che oltraggia gli organi vitali del corpo. Che prende possesso della mente. Fino ad infangare anche la vita privata. Lo straining è scambiato per mobbing, ma non lo è. Molte delle cause di lavoro si arenano per questo motivo.
Sullo straining si scivola.
Burnout.
Pneumatici che sgommano sull’asfalto e che bruciano. Burnout significa: bruciato interamente. Daniele, il protagonista della storia di lavoro riportata da Harald Ege, ha una forte responsabilità economica e organizzativa. L’impegno e l’orientamento al risultato lo allontanano dai colleghi e dai familiari, fino al pericoloso crinale dell’esaurimento emotivo. Il burnout non è un difetto di personalità e nemmeno una sindrome clinica. E’ un problema occupazionale. Lo fa notare l’autore inducendo la certezza che le insidiose sfumature di mobbing e il mobbing stesso vengano generati da anomalie organizzative. Causate dall’incrocio fra diverse variabili. Fra queste: la scarsità oppure l’eccesso di risorse economiche; qualche volta da personalismi di sedicenti leader che confondono l’autorevolezza con il potere e hanno perduto senso della realtà e obiettività.
Workaholism.
Dipendenza da lavoro. E’ una modulazione del burnout. I workaholic sono quelli che portano il lavoro a casa e che non riescono a staccare la spina. Ci si deve domandare se il comportamento del workaholic dipenda da persecuzione e conflittualità, anche striscianti. O forse da una cattiva gestione dei carichi di lavoro e da altrettanto critica gestione del personale. Di fatto si tratta di una situazione stressante condizionata in diversi casi anche da scelte personali: carriera, guadagno economico, status symbol oppure da situazioni di sofferenza economica che richiedono impegno lavorativo anche al di fuori dell’orario di lavoro.
Whistleblowing.
“Suonare il fischietto, fischiare.” Vigliacco chi fischia. E’ un leader solo di nome chi ha bisogno dei fischi di chi fa la spia.
Suonare il fischietto significa fare la spia. Significa appellarsi allo zar, confidando in una soluzione imposta dall’alto. Sempre ai danni di qualcuno, cioè di un collega.
L’autore riporta la storia di un ufficio a due scrivanie, dove siedono due colleghe incompatibili per carattere. Una delle due resiste agli attacchi della collega più fragile ed aggressiva e razionalmente smonta pezzo per pezzo il tentativo di umiliazione e inquinamento della sua immagine. A sprazzi riesce a riportare il sereno. La collega non accetta l’evidente superiorità di stile della resistente. E si appella al capo. Gli riferisce fatti non reali falsando immagine e impegno professionale della collega e istigando una reazione proveniente dal piano gerarchico superiore che tende a rompere l’equilibrio psicologico della collega resistente.
La filiera del disagio.
La qualità della persecuzione parte dallo stress negativo, passa per straining e mobbing. A volte finisce alle vette dello stalking. In mezzo ci sono le azioni di tutela e di difesa da intraprendere. Il libro di Harald Ege è una cartina di tornasole del tormento inferto dal lavoro malato. Propone casi di studio ed esplicita le cause dei maltrattamenti. La forza della ragione in difesa dell’emotività ferita.
Harald Ege, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Franco Angeli, Milano, 2024.