"Non mi piacciono le analisi disfattistiche, quelle che invece di avere il coraggio di addentrarsi nel cuore dei problemi accarezzano la pancia e si prestano bene al mugugno, alla rassegnazione, alla retorica del "non c'è speranza", "si stava meglio quando si stava peggio", "tanto sono uguali".
C'è un problema: instaurare un senso di appartenenza a tutta una parte del mondo del lavoro che vive ai margine della società, in quella zona grigia fatta di disoccupazione, di precarietà, di voucher, di assenza di diritti, condizioni di vita che isolano, che provocano una rabbia solitaria e una frustrazione quotidiana; ma questo non deve giustificare la dissacrazione della festa dei lavoratori.
A Genova si sono mescolati giovani e meno giovani, precari e lavoratori stabili, lavoratori di aziende che funzionano e lavoratori di aziende in crisi, tutti i settori e i meandri di un mondo del lavoro che si fa sempre più crudele e complicato.
Arriva un messaggio forte di speranza e di unità da Genova, di un sindacato che sa di dover trasferire la propria azione nelle periferie del mondo del lavoro, che deve cambiare linguaggio affinché sia comprensibile a tutti, che deve promuovere lotte che unifichino il mondo del lavoro e deve riconquistare a sé generazioni che rischiano di essere perdute.
Il Primo Maggio non può e non deve essere un ricordo nostalgico del passato, ma il punto di sintesi dei bisogni e delle lotte di tutti i lavoratori, per affermare ancora e nuovamente che non c'è nessuna soluzione individuale ai problemi, ma che la speranza di cambiamento, di un vero cambiamento, passa ancora e nuovamente attraverso una dimensione di partecipazione collettiva".
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