La crisi che diventa quotidianità, la crisi con cui dobbiamo convivere e che giustifica ogni scelta messa in atto per affrontarla, la frase che sentiamo più frequentemente è "non si può fare diversamente", l'accettazione di questo paradigma è divenuto il profilo più riconoscibile, se non esclusivo, dell'essere responsabili, della responsabilità.
Nel nostro settore, nel welfare, questi sono stati gli anni
• del taglio progressivo, fino al sostanziale azzeramento, dei Fondi nazionali per le politiche sociali, per la non autosufficienza, per la famiglia, per l'infanzia, per le politiche giovanili, per l'immigrazione;
• della riduzione forte dei trasferimenti agli Enti Locali, che gli stessi principalmente destinavano ai servizi sociali;
• del crescente irrigidimento della spesa sanitaria;
• dell'allungamento patologico dei tempi di pagamento pubblici, particolarmente gravoso per realtà d'impresa come le nostre, ad alta intensità di lavoro;
• del sensibile affievolirsi della tensione pubblica a promuovere inclusione sociale sostenendo l'inserimento al lavoro delle persone svantaggiate.
Quattro anni dopo, e dopo tutto questo, la crisi ha il volto concretissimo:
• di quasi 3.500.000 disoccupati, oltre il 12% delle persone in età da lavoro, ma quasi il 40% dei giovani entro i 25 anni; percentuali purtroppo ben più alte ove si considerino milioni di lavoratori in cassa integrazione per molti dei quali il rientro al lavoro è del tutto incerto, e si tenga conto del fatto che ben il 53% degli occupati giovani ha rapporti definibili precari;
• di 9 milioni e mezzo di persone (il 15,8% della popolazione) che vivono in condizioni di povertà relativa e, tra questi, quasi 5 milioni (8% della popolazione) in condizione di povertà assoluta;
• del 10% delle famiglie che possiede quasi il 50% della ricchezza nazionale, mentre il 50% delle famiglie non arriva a detenerne il 10%.
E' il volto di un paese e di una regione segnato da disuguaglianze profonde, da una accresciuta e pesante ingiustizia sociale.
Oggi c'è una strada obbligata per uscire dalla crisi: "rafforzare le persone ", le relazioni tra di loro, costruire legami, fare sistema, creare nuove politiche di sviluppo fondate sulla coesione sociale. Dalla crisi si esce puntando sull'equità!
L'esperienza della cooperazione sociale (e della cooperazione nel suo complesso) dimostra che è possibile, con lo strumento dell'impresa, dare risposta alle esigenze sociali, che produrre valore per i soci (la mutualità interna storica della cooperative) può contestualmente produrre valore sociale ed economico per la collettività.
Il protagonismo dei cittadini, la loro capacità di organizzare e autogestire anche in ambito economico, con finalità pubbliche, è forse il fenomeno di maggiore innovazione che si sta producendo in Italia, e con tutta evidenza può avere un ruolo sostanziale per un progetto di rigenerazione e di sviluppo del Paese.
La cooperazione sociale si candida a questo ruolo, ne ha le capacità e la storia di questi anni ce lo dice.
Tutte le fonti, interne ed esterne, confermano che nella crisi la cooperazione sociale non solo ha tenuto, ma ha mantenuto una significativa capacità di crescere.
I dati del censimento Istat dicono che in 10 anni, dal 2001 al 2011, la cooperazione sociale complessivamente intesa in Italia è cresciuta del 98%, quanto a numero delle imprese, occupati e valore di produzione.
La ricerca che Censis ha effettuato nel 2012 per l'Alleanza delle Cooperative Italiane ha documentato che, insieme a questa straordinaria capacità di crescita, la cooperazione sociale è il settore che nella cooperazione meglio ha retto alla crisi, e più importanti risultati ha prodotto anche sul versante occupazionale, confermando la propria eccellenza rispetto all'occupazione femminile ed alla presenza femminile nei ruoli di organizzazione, direzione e governo delle imprese.
Tuttavia, gli effetti della crisi ci hanno toccato da vicino, da un lato con la progressiva riduzione dei margini gestionali che, soprattutto per le cooperative di minore dimensione, ha in non pochi casi messo in discussione la tenuta dell'impresa; dall'altro la chiusura crescente di servizi, sia in ambito sociale che in attività finalizzate all'inserimento lavorativo, ha messo a rischio posti di lavoro, le riserve delle nostre cooperative faticosamente accumulate negli anni calano in maniera vistosa, aumentano le richieste di attivazione di C. I. in deroga.
Anche i dati Liguri ci confermano una tenuta, difficile, ma una tenuta il cui merito è nel duro lavoro dei nostri soci, nel nostro modello, nelle nostre scelte che in questi anni hanno privilegiato, come è giusto che sia, l'occupazione.
In Liguria le cooperative sociali Legacoop hanno un fatturato importante , circa 161 Ml di euro, il capitale sociale è di 4 milioni di Euro è questo un dato che ci piace sottolineare, perché è il termometro di una base sociale che crede nella propria cooperativa pur in un contesto avvilente, che rateizza il capitale sociale a fronte di stipendi bassi, 15 sono i ML di patrimonio che risulta, appunto in calo. Gli occupati del 2010 erano 4200 , 4470 nel 2011 circa 4500 nel 2012 (i dati sono ancora incompleti ma la proiezione ci da questo risultato).
Quindi una tenuta, ma quante difficoltà, quanta preoccupazione in questi anni.