Giorgio Pagano, 65 anni, per un decennio sindaco della Spezia (dal 1997 al 2007) poi impegnato in progetti di cooperazione internazionale. Ma anche scrittore e opinionista.
Di recente ha pubblicato un libro (che la Gazzetta ha già presentato) che parte dalle sue esperienze “Africa e Covid-19 Storie da un continente in bilico”, ebook pubblicato da Castelvecchi per la collana ESC. L’opera è una sorta di “narrazione collettiva” sull’Africa ai tempi della pandemia, frutto dell’intreccio tra l’analisi dell’autore e le numerose testimonianze di esponenti delle Ong, delle associazioni dei migranti, delle istituzioni locali e della società civile africane, in gran parte raccolte grazie al supporto dell’associazione ligure Januaforum e del Forum delle Attività Internazionali della Toscana.
Ne abbiamo parlato con l’autore: il risultato è un po’ lungo. Ma ogni tanto non è male fermarsi un po’, alzare lo sguardo dall’attualità e rivolgerlo... oltre diga, lontano dalla quotidianità. Che poi non è così lontana, perché puntando a sud, l’Africa è proprio lì, sulla sponda opposta del nostro Mediterraneo...
C. Ogni espressione umana, e dunque anche la scrittura di un libro, nasce da un desiderio, da un’esigenza forte, da una motivazione. Quale è stata la tua “reason why”, come direbbero gli anglosassoni, a parlare di Covid e dei rischi della sua diffusione sul suolo africano? Insomma, più banalmente, perché? Perché hai scritto proprio questo libro? Quale è stata la molla che è scattata? E subito dopo un’altra domanda: perché proprio l’Africa?
P. Di questo periodo di tenebre, quello che ci rimarrà più impresso nella memoria è il giorno in cui abbiamo sentito, in una piazza San Pietro vuota come mai prima nella storia, il crepitio della pioggia, il suono delle campane unito a quello delle sirene delle ambulanze e la voce di un uomo solo vestito di bianco, con il volto provato dalla fatica e un messaggio di speranza nel cuore. Francesco ha ricordato che cosa questa pandemia smaschera. Siamo “avidi di guadagno”, “ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta... abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”. La molla del libro è stata questa riflessione: il coronavirus è lo specchio della nostra civiltà, di una “globalizzazione letale”, del mito per cui si può avere uno sviluppo infinito anche se le risorse del pianeta sono limitate. La salute è una questione globale, che dipende innanzitutto dall’ambiente. In “Sao Tomè e Principe - Diario do centro do mundo” ho raccontato la bellezza straordinaria della foresta, il dramma della deforestazione, l’incontro con i pipistrelli della foresta. Non immaginavo che, strappati al loro habitat dalla deforestazione, finissero “sotto stress” in un territorio non più loro, diventando aggressivi portatori di virus. Ecco perché l’Africa, e in generale il Sud del mondo: perché le pandemie nascono dalla distruzione dell’ambiente, dallo sconvolgimento degli ecosistemi naturali. Il vero antivirus che abbiamo a disposizione è la conservazione della natura, in particolare delle foreste tropicali. Consiglio la lettura di un libro straordinario, “Spillover” di David Quammen. È stato scritto nel 2014, ma prevedeva tutto ciò che è accaduto. C’è un mondo solo, di cui l’umanità fa parte insieme alla natura. Siamo parte della natura, ce ne siamo dimenticati.
C. Oggi come sta l’Africa?
P. È un continente in bilico. Dal punto di vista sanitario la diffusione del virus è minore rispetto al resto del mondo, ma è in crescita. Se non viene contrastata sarà una catastrofe. Il sistema sanitario africano è fragilissimo: pochi medici, pochi ospedali... Come intervenire? Con la sensibilizzazione della popolazione e con i test di massa, per isolare i contagiati. Il lockdown non funziona, perché l’economia dominante è quella informale: le persone escono per la necessità di guadagnarsi da vivere, per poter mangiare...
Dal punto di vista economico la situazione è forse ancora più preoccupante. La crisi economica era già cominciata, il Covid-19 ha funzionato da amplificatore. I Paesi ricchi devono cancellare il debito dei Paesi poveri, non ci sono altre soluzioni. E l’Africa va supportata nella ricerca di un suo “sviluppo endogeno”, come hanno scritto 100 intellettuali africani nei giorni scorsi. Senza più rapine neocoloniali.
C. Da... Piazza Europa al continente nero. Una distanza davvero così grande? O c’è qualcosa che ci unisce?
P. Il concetto di “unità” del mondo sembra sia diventato un “extra” all’epoca dell’”America first”, di “Prima gli italiani” e così via. Ma non è così. Il nuovo cammino non potrà che essere globale. Perché tutto è globale, anche la salute, come ci ha insegnato il virus. Il tema è un’”altra” globalizzazione, il “buongoverno” mondiale, l’attuazione dell’Agenda ONU per lo sviluppo sostenibile. Dobbiamo imparare a condividere il pianeta. E dobbiamo sapere che nel nuovo governo multilaterale del mondo ci sarà grande bisogno di una nuova Unione europea. Il libro si conclude così: “L’Europa è il grande Nord dell’Africa, l’Africa è il grande Sud dell’Europa. Europa e Africa sono un unico corridoio che oltrepassa il Mediterraneo, ‘grande lago euroafricano’. Noi abbiamo bisogno di loro, loro hanno bisogno di noi. I destini sono interconnessi. In gioco non c’è solo il futuro dell’Africa, in gioco c’è il futuro dell’Europa”. E, aggiungo, dell’Italia.
La domanda porta a riflettere anche sul ruolo dei Comuni. Fino a pochi anni fa il dialogo euroafricano era organizzato al solo livello dei Governi e dei Parlamenti degli Stati, ora si sta allargando alle istituzioni locali. Il mio impegno principale di questi anni è stato proprio questo: portare tra le sfide della cooperazione euroafricana la prospettiva locale. Perché senza il decentramento, l’autogoverno dei territori e lo sviluppo locale non c’è futuro per l’Africa. In questo contesto la cooperazione diventa partenariato “comunità a comunità”, basata su reciprocità e scambio, capace di coinvolgere sia le istituzioni locali che le organizzazioni della società civile, le nostre comunità e quelle africane. Il Comune della Spezia ha avuto negli scorsi anni fugaci rapporti con Comuni sia del Niger che del Burkina Faso, che andrebbero ripresi e sviluppati.
C. Se è vero che, come riporti nel tuo libro, un proverbio dell’Angola dice che “dalla ferita esce sangue, ma entra saggezza”, cosa è entrato nel nostro Paese, in questa nostra Italia, dall’atroce ferita del Covid-19? Quale saggezza hai scoperto?
P. Aveva ragione il Papa quel giorno nel deserto di piazza San Pietro: “E’ il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”. Spero che sia entrata la saggezza della giustizia sociale e della giustizia ambientale. Della fratellanza. Attraverso il nostro forzato isolamento forse siamo riusciti a capire l’importanza degli altri: della società, della comunità, della fratellanza. Quest’ultimo termine è per me fondamentale. Nelle mie ricerche storiche, prima sulla Resistenza, poi sugli Anni Sessanta, sono giunto alla conclusione che l’idea che animò più di tutte i comportamenti delle persone in quei periodi così importanti e fecondi della nostra storia fu quella della fratellanza, di una esperienza comune quale cemento di una nuova socialità. Più che mai soli, senza relazioni, abbiamo forse scoperto il nostro bisogno di società, di vicinanza con l’umanità nel suo insieme, di fratellanza. Una vicinanza da estendere, come ho spiegato, alla natura.
Tutto questo c’è anche in Africa: proviene dalle antiche civiltà, non è mai scomparso. Si chiama “Ubuntu”: vuol dire che ogni uomo è parte degli altri uomini, che c’è un senso di responsabilità collettiva. L’”Ubuntu” spiega il grande patrimonio di creatività popolare e di solidarietà dal basso che la società africana ha saputo mostrare anche in occasione del Covid-19. Nel libro un nigerino dice: “Abbiamo un solo centro di analisi e per curarsi servono i soldi. Siamo imprigionati nella violenza dei gruppi jihadisti, piegati dagli effetti del cambiamento climatico, questo renderà i poveri ancora più poveri, ma ci aiutiamo l’un con l’altro, ci salverà dal virus”. In Niger ci sono anche i campi dei rifugiati provenienti da altri Paesi africani. Sono persone che hanno perso tutto ciò che di prezioso avevano nella vita, il loro ruolo sociale, e che stanno conquistandosi un nuovo ruolo nel prendersi cura dell’altro. Producono sapone e mascherine, esprimono creatività... Persone che hanno bisogno di assistenza forniscono un apporto alla comunità. È la resilienza, la capacità di andare al di là di tutti i traumi subiti e di mettersi in gioco per aiutare gli altri. Il Covid-19 è per loro un’opportunità di rinascita e di cambiamento. Questa è una lezione anche per noi, come spiega nel libro Marzia Vigliaroni, responsabile della salute mentale per l’Alto Commissariato ONU per i rifugiati in Niger.
C. Un’ultima domanda che, ti assicuro, non è provocatoria o ironica. Giorgio, cosa farai... da grande? Come vedi il tuo impegno di uomo nei prossimi giorni?
P. Spero di poter ripartire presto per la Palestina, l’altra terra a cui sono profondamente legato. Sto seguendo un progetto formativo sull’acqua. Lo stiamo trasformando in un progetto a distanza, ma temo che così perda valore... E poi continuerò a scrivere. In fondo è sempre lo stesso libro: partigiani, contadine, ragazzi degli anni Sessanta, africani... Storie di donne e uomini semplici che vogliono autogovernare la propria vita in un cammino collettivo, nel rapporto con gli altri e per gli altri. Quindi: cooperante, scrittore e “attivista” nella mia città, per renderla più giusta dal punto di vista sociale e ambientale. Da grande voglio continuare a ricercare una cosa molto difficile: la fedeltà agli ideali della mia gioventù.
nella foto Giorgio Pagano con la "equipa" di Alisei Ong a Sao Tomè e Principe (2016) (foto archivio Giorgio Pagano)