La collettiva Still life visitabile sul sito www.ucailaspezia.org afferma la volontà degli artisti aderenti al sodalizio di mantenere viva la loro creatività, pur nell’attuale situazione di grande emergenza. Tema della mostra è la natura morta e richiama le giornate occupate nell’approfondimento di tale genere artistico, che ho diligentemente affrontato nella preparazione della conferenza Fiori nella pittura, promossa dalla attivissima sezione spezzina della Dante Alighieri con la neonata associazione Amicheinfiore ed ospitata il 21 marzo 2017 a Casa Massà.
Frutta e fiori, unitamente a bottiglie, libri, cacciagione, pesci, vasellame, strumenti musicali, insetti, ecc. sono partecipi della natura cosiddetta “immobile e silenziosa”. Pare un’assurdità affiancare l’aggettivo “morta” alla natura solitamente celebrata per la sua vivezza. Ma ecco che il fiore reciso e la frutta colta dall’albero, quando si allontanano dal loro habitat, favoriscono la reale sensazione della natura che perisce.
In taluni dipinti del Cinquecento e del Seicento assume rilevanza anche la raffigurazione della vanitas. Ammonisce l’Ecclesiaste: «Vanità delle vanità, tutto è vanità» e i simboli del teschio, memento mori, della candela spenta, della clessidra, di fiori spezzati e frutta guasta rivelano quanto sia precaria la condizione della vita e della bellezza sottoposta all’inesorabile incedere del tempo.
Moltissime tele realizzate da celebri pittori hanno recato autorevolezza alla natura morta che nel XVI secolo si propone, grazie alla sua diffusione in vari paesi europei, quali Belgio, Francia, Italia, Olanda e Spagna, come un genere autonomo. Ma è all’Italia settentrionale e alle Fiandre che viene accreditata la primogenitura della natura morta.
Giorgio Vasari (1511-1574) nelle biografie raccolte su Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori rivolge centralità al ruolo di Giovanni da Udine (1487-1561), validissimo collaboratore di Raffaello, il quale - scrive Vasari - “riusciva a contraffare benissimo, per dirlo in una parola, tutte le cose naturali, d’animali, di drappi, d’instrumenti, vasi, paesi, casamenti e verdure”. Meriterebbe ben più di una frettolosa citazione e lascio ai lettori il piacere di affrontare più ampie e scrupolose indagini la celebre Canestra di frutta (1596), olio su tela di modeste dimensioni eseguito nel 1596 da Caravaggio (1571-1610) e custodito nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Mele, pere, uva e melograni sono dipinti “con una forza e una concentrazione tali da far sembrare la canestra un ritratto umano”. Non si conoscono altre nature morte dello straordinario pittore, che annovera molti seguaci, il quale in più occasioni inserì nei suoi dipinti soggetti floreali, strumenti musicali ed ancora frutta, il tutto affrontato con la stessa sensibilità e perizia riferite alla figura umana.
Nel preparare la conferenza citata in premessa consultai una vasta mole di contributi teorici, in parte censiti nel mio p.c. e in apposite cartelle, tra cui pregevoli saggi e articoli dedicati ad un’importante mostra del 2010 dal titolo Fiori. Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh", allestita nei Musei di San Domenico a Forlì. Non mi sfuggì il riguardo espresso con aggettivi superlativi da studiosi e saggisti di diversa fama rivolta alla tavola dall’incerta attribuzione, Fiori in una fiasca impagliata (1625-30 ca), opportunamente assegnata al “Maestro della fiasca di Forlì”, nel dubbio di aggiudicarla a Tommaso Salini (1575ca-1625ca) o Guido Cagnacci (1601-1663). Certo di destare la curiosità degli appassionati riporto la nota critica di Goffredo Silvestri che così descriveva la straordinaria opera dell’ignoto autore: «Si tratta di una fiasca dal collo rotto trasformata in vaso di fiori: iris giallo e azzurro screziato, gladioli bianchi, gialli e rosso, "stelle di Betlemme" bianche. La grossa impagliatura è sfatta nella parte superiore e il ricciolo che ne risulta si dipana verso l'osservatore, mentre il sottile manico di paglia "naviga" nello spazio a catturare luci e ombre. La grossa impagliatura è interrotta a metà "pancia" e una voluta è violentemente sfrangiata verso l'esterno. Tutto questo complica il lavoro del pittore, perché le superfici si spezzano, si arrotolano, si nascondono, si fanno puntute, ma si ha l'impressione che queste difficoltà siano state create dall'autore per mettersi alla prova (e superarla brillantissimamente). Per esempio i gladioli purpurei hanno perso dei petali che sono ombre colorate e indecise sullo sfondo scuro-nero. La fiasca della Pinacoteca di Forlì è appoggiata su di una tavoletta che, altro incremento di difficoltà, è appoggiata in obliquo su quello che sembra un tavolo da falegname. Su quest'ultimo infatti, sullo spessore dando un effetto di trascinamento dovuto alla forza di gravità, brillano quelle che sembrano perle trasparenti, gocce di colla bianca. Si è pensato a gocce d'acqua sprizzate sui fiori recisi, ma sono veramente pochissime e non si rintracciano sui fiori. La magistrale luce-ombra con cui la "Fiasca" è dipinta - prosegue Silvestri - fa pensare come unica certezza ad un ambiente caravaggesco».
Lo storico dell’arte Antonio Paolucci, già direttore dei Musei Vaticani, definendola un capolavoro della pittura del Seicento, senza alcuna titubanza, lo considera alla pari della stranota canestra caravaggesca. Mantiene sempre la sua attualità il tema dell’attribuzione di dipinti di secoli passati, tanto che si argomenta sulle “opere senza nomi” e sui “nomi senza opere”. Anche il nostro Museo Lia propone una sequenza di straordinari lavori di ignoti autori, identificati dagli studiosi con gli attributi, ad esempio, di Maestro del Crocifisso di San Quirico, Maestro delle Immagini Domenicane, Maestro della Maddalena, Maestro della Madonna di San Lorenzo, Maestro del Pappagallo, Maestro dei Riflessi. Le non lontane chiese di San Giovanni Battista (Riomaggiore), San Lorenzo (Manarola), N.S. della Salute (Volastra) custodiscono autorevoli dipinti del XV e inizi del XVI secolo realizzati dal Maestro delle Cinque Terre, artista sconosciuto dalla considerevole personalità.
Rientro sul tema strettamente connesso alla mostra Still life, sottolineando la diffusione e il successo tra i collezionisti che la natura morta ha avuto nel XVII secolo, considerato a tutti gli effetti un vero e proprio secolo d’oro, grazie anche al fondamentale contributo di pittori fiamminghi (Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625), Ambrosius Bosschaert (1573-1621), Pieter Claesz (1598-1664), Jacob van Ruysdael (1628-1682), ecc.). Significativo, inoltre, l’apporto di pittrici e pittori italiani, tra i quali Fede Galizia (1558-1630), Panfilo Nuvolone (1581-1651), Luca Forte (1600/05-1670), Guido Cagnacci, Giacomo Recco (1603-1653), Giuseppe Recco (1634-1695), Cristoforo Munari (1667-1720), autori di sceltissimi dipinti che si possono ammirare nell’apposita sala del lodato Museo Lia.
L’ Olanda si impone con l’eccelsa figura di Johannes Vermeer (1632-1675). Silenti composizioni amalgano persone e semplici oggetti e fanno di Vermeer “il più grande pittore di nature morte umane”. Tutt’altro che trascurabili sono le testimonianze dello spagnolo Francisco de Zurbaran (1598-1664), a suo agio nel dipingere brocche, piattini in metallo, arance e limoni disposti in cesti di vimini
Declinante nel XVIII secolo, la vitalità della natura morta ha recuperato spazio nell’Ottocento e nel Novecento, grazie ad interpreti universalmente noti, quali Gustave Courbet (1819-1877), Eduard Manet (1832-1889), Paul Cezanne (1839-1906), Vincent Van Gogh (1853-1890), Henri Matisse (1869-1954), George Braque (1882-1963), Pablo Picasso (1881-1973) e Giorgio Morandi (1889-1964). Le nature morte del pittore bolognese, tra i massimi protagonisti del Novecento, ritraggono semplici oggetti della quotidianità (bottiglie, brocche, vasi e lumi) e sono irraggiungibili l’accentuato intimismo, il misurato cromatismo e l’alito poetico che esse esprimono. Morandi sapeva comunicare attraverso la natura morta il senso della vita, rivelandone il suo rapporto e su quei comuni e amati oggetti concentrava una profonda meditazione esistenziale.
Dopo aver divagato qua e là, eccomi ad alcuni appunti, tutti di segno positivo sull’iniziativa espositiva promossa dall’Unione Cattolica Artisti Italiani della Spezia, che avrebbe dovuto essere ospitata dal 28 febbraio sino al 12 marzo scorso nell’abituale sede del Circolo Culturale “A. Del Santo”, facendo seguito alla mostra Tracce del Novecento gratificata da un esito molto soddisfacente.
Le ordinanze motivate dal temibile e spietato “coronavirus” hanno sortito l’inevitabile annullamento della vernice e di quanto ad essa collegato. Felicissima l’intuizione di Fabrizio Mismas, ben accolta da tutti soci, con in testa il presidente Guido Barbagli, che sotto il motto L’attività dell’Ucai non si ferma ha suggerito il graduale trasferimento su internet delle opere appositamente preparate.
Chi, come il sottoscritto, vanta una lunga presenza nell’Ucai ha certamente memoria di altri momenti espositivi sul tema della natura morta. Mi riferisco a tempi più recenti nell’accennare alla collettiva del 6 ottobre 2012 ed alla rassegna del maggio 2017 sullo specifico tema floreale.
Già dalla visione dei lavori presenti on line è possibile affermare ancora una volta quanto il confronto dei linguaggi favorisca la più variegata interpretazione del tema. Si percepisce, inoltre, come ogni artista abbia affrontato la natura morta con atteggiamenti particolarmente sentiti, distanti dalla superficialità né dal dover soddisfare lo svolgimento di un banale compitino. L’artista, infatti, non può non essere esigente allorché affronta problemi legati allo spazio, ai volumi, alla composizione formale, sia essa figurativa o astratta, del dipinto o della scultura che si accinge a realizzare.
Dall’insieme di Still life emerge un complessivo senso di appartenenza al tema sviluppato con autonomia compositiva e buon gusto nella modulazione dei colori. Non sfugge l’ideale dialogo che percorre l’intera rassegna animata dal cauto incedere delle nature morte, ognuna delle quali rivela l’impronta dei rispettivi autori.
Con il consenso del presidente Barbagli ho chiesto di associare ai lavori dei soci dell’Ucai una Natura morta su tavola, esuberante nella rappresentazione della frutta (uva, pesche, mele, melograno) e nelle accensioni cromatiche. L’opera fedelissima alla realtà è stata eseguita nel 1906 dall’esperto pittore trevigiano Emo Mazzetti (1870-1955), assiduo sin dal 1899 alla Biennale di Venezia, nonché membro autorevole dell’Accademia di Belle Arti della città lagunare, dove si formò sotto la guida di Guglielmo Ciardi (1842-1917). Il catalogo del pittore veneto, che intrattenne relazioni con una famiglia spezzina, comprende anche interessanti tele dedicate al paesaggio.
La rassegna Still life è stata condivisa da Gloria Augello, Rosella Balsano, Guido Barbagli, Alberto Barli, Umberto Bettati, Antonella Boracchia, Pino Busanelli, Umberta Forti, Ombretta Franco, Giuliana Garbusi, Anna Maria Giarrizzo, Enrico Imberciadori, Mario Maddaluno, Marisa Marino, Sergio Maucci, Nina Meloni, Fabrizio Mismas, Pierluigi Morelli, Graziella Mori, Cettina Nardiello, Maria Pia Pasquali, Marina Passaro, Bianca Maria Patuzzo, Malia Pescara Di Diana, Maria Luisa Petri, Mirella Raggi, Rosa Maria Santarelli, Nicol Squillaci, Maria Rosa Taliercio e Mema Vortice. Gabriella Mignani ha condiviso l’evento espositivo con versi poetici attinenti al tema.