Quando ti manca qualcosa l’elemento di indagine più accattivante è capirne le cause. Con uno spirito un po’ “marzulliano” si tratta di cimentarsi nel risolvere il grande dilemma (anche se recentemente la scienza qualcosa nel merito ha voluto dire) che cerca la risposta per capire se è nato prima l’uovo o la gallina. E allora vai di domande: “mi manca perché non è con me o mi manca a prescindere? Mi manca perché non la posso avere o mi manca perché era importante? E se prima non mi mancava così tanto allora era effettivamente importante? Ma se prima era con me non mi poteva mancare, quindi non è corretto sentirne solo adesso la mancanza?” E via così all’infinito.
Si potrebbero riempire centinaia di pagine a ripercorrere domande, dubbi e incertezze di quello che ci si affaccia nella mente. La mancanza come sinonimo di radici racchiude in sé un sentimento che rappresenta una costante nella letteratura, nel cinema e nella storia. Mancanza che a volte viene declinata come elemento assertivo per esplicitare un concetto che richiama al patriottismo perché la patria è qualcosa che può diventare veramente elemento coagulante di un certo comune sentire. Un tratto distintivo di tante generazioni che hanno fatto la storia di questo paese e dell’Europa tutta.
In effetti non lo so se siamo tutti più patrioti (una parola che ritengo bellissima) quando siamo fuori dalla nostra patria. Un dubbio che fa parte di quelle domande che mi porto dietro da quando per impegni di lavoro ho lasciato la mia città. È da qui che forse nasce il sentimento del sentirsi “più spezzino”, perché alla fine quando non ci sei o ti manca qualcosa, come ho scritto all’inizio di questo pezzo, non sai mai sino in fondo il perché ma poi alla fine è così. Forse, anzi senza il forse, aveva ragione Gino Patroni quando definì così la nostra città: “Spezia è un’abitudine”.
Un concetto che rappresenta benissimo l’andamento di un tessuto che si caratterizza in maniera così peculiare da affermare la propria unicità. Spezia è cambiata profondamente. La mia generazione, che ha vissuto la propria infanzia negli anni novanta e la propria adolescenza nei primi anni duemila, ha ben impresso nella mente il volto di quella città, quella di prima, e come invece si presenti adesso. Una riconversione che ha dato spazio a nuove professioni e ha in un certo modo responsabilizzato proprio la nostra generazione: siamo stati i primi a raccogliere il testimone di quel cambiamento e i primi a farne strumento di ingresso nella nuova domanda che il mercato del lavoro aveva così prepotentemente avanzato nel nostro territorio.
Oggi Spezia è una nuova realtà. Oggi Spezia rappresenta certamente un’abitudine che stimola, sempre, il concetto della mancanza ma che unisce a tutto questo un sentimento di sfida che definirei quasi emozionante. La sfida, questo è l’altro elemento che si coniuga con il sentimento della mancanza. Una generazione, la nostra, che ha nel proprio DNA quella sensazione di sfida che da un lato ci ha reso sempre consapevoli di ciò che siamo stati chiamati a fare, e dall’altro, ci ha reso anche più vulnerabili perché sempre esposti al vento del cambiamento.
Spezia è una realtà speciale perché rappresenta uno spaccato di Liguria che è unico. Una soggettività che si caratterizza proprio per il suo andamento lento ma costante, a volte soporifera ma anche elettrizzante, ruvida ma accogliente. Un guazzabuglio di contraddizioni che sono figlie di quella “mescolanza” che la storia ci ha consegnato. Una città che rappresenta benissimo il “comune sentire” perché alla fine tutto il mondo è paese. Una città che sa rimboccarsi le maniche ma che è anche un luogo nel quale (e io dico per fortuna) una “rivoluzione incosciente” non si farà mai, proprio perché (parafrasando una celebre frase) “a Spezia è impossibile fare la rivoluzione, ci conosciamo un po’ tutti.”
Una città che ha la capacità di consegnare immagini nitide che all’apparenza possono anche sembrare insignificanti, ma insignificanti non sono.
Alcuni quartieri popolari che hanno un’architettura cento (ma cosa dico?) mille volte più bella delle nuove case del centro.
Un centro storico che trasuda ancora storia antica, quella storia antica che ospitava i marinai e le puttane del poggio. I bar delle diverse “casate” che animavano il campanilismo tra quartieri…
Non mi capita da tanto tempo ma ho ancora nella mente le immagini della città che la domenica durante l’estate si svuota e le radio che cantano fuori dalle finestre a fare l’eco ai panni stesi che svolazzano al vento. O le televisioni che incanalano fuori dai balconi le sigle più popolari dei programmi della televisione di Stato. Tante cose che si legano a questa dimensione dell’ovvio. Perché tutto nella nostra città sembra ovvio, sino a quando c’è, o sino a quando possiamo scegliere che sia, o che non sia, dentro la nostra vita.