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di Francesca Dallatana - Ironia creativa. Mannequin worker.

“Aria precaria” innesca creatività. Ma non funziona per tutti. Per Sara Root le sabbie mobili del lavoro flessibile hanno innescato la miccia di un nuovo inizio.
Per i lavoratori professionalmente deboli la flessibilità è una palude senza ritorno.
Un lavoratore forte conosce le proprie competenze e sa stare in equilibrio nella ragnatela del lavoro, durante la ricerca e nel tempo di lavoro. L’autrice ne fa menzione indiretta e diretta nel dare voce alla protagonista del romanzo, lavoratrice disponibile alla flessibilità, protetta da una corazza di dignità.
L’impresa nasce da un’idea. Un’idea è la declinazione di un talento. Che non si fotocopia al bisogno. E non si ruba. Il talento è un cromosoma del personale patrimonio culturale.
“Aria precaria” è un libro leggero per la fluidità della comunicazione e ad alta intensità di pensiero, per l’attualità dei temi proposti e  per la precisione del racconto. Pubblicato da Cairo Editore nel 2012. A dodici anni di distanza, una testimonianza di preoccupante attualità.

La penna.
Una scrittura tagliente come un bisturi. Un sorriso tra ironia e disperazione in sottofondo.
La penna ha colorato e ha sdrammatizzato anche il groppo in gola dell’impotenza dopo il colloquio di selezione. Il romanzo è cronaca nella quale la maggioranza dei candidati si riconosce.
Se non raccontasse un dramma sociale, potrebbe essere il copione di una gag.
Una scrittura sicura. Sara Root sa come dire e quando dire. Capace di stupire e di assestare pugni di rabbia.
E’ una scrittura compresa tra lo stile della carta stampata e l’immediatezza dei social media.
Dei social media ha l’iniezione diretta dell’adrenalina. Della carta stampata, la posa ragionata del dubbio, della necessità di pensiero.
E’ leggera e rapida come uno sguardo a volo d’uccello. Ma scolpisce una riflessione pesante come un macigno.

Personaggi in cerca di lavoro.
I personaggi del romanzo sono in bilico sul crinale del grottesco, nonostante il realismo del tratteggio. E non è la penna di Sara Root a renderli grotteschi: sono personaggi a portata di vita quotidiana.
Le selezioni per la posizione di commessa di un grande negozio oppure di venditrice o venditore sono affidate a giovani psicologi del lavoro. Somministrazione di un test, poi un colloquio conoscitivo.
Il colloquio conoscitivo perde senso e logicità nei quadretti dedicati alla selezione del personale, ritagliati nel romanzo. Test somministrati e colloqui di gruppo all’apparenza e anche nei fatti disgiunti dal contenuto del lavoro per il quale ci si candida. La delusione del candidato è hard, dura.
La scelta del lavoratore dipende dalle età e dall’aspetto fisico, considerato uno strumento di lavoro. La giovane età facilita l’assunzione, perché permette l’apprendistato, quindi una contribuzione Inps agevolata.

Prima scena. “Quando ti chini, girati dall’altra parte. Sei una bella ragazza se i clienti ti vedono sono invogliati ad entrare”, una store manager suggerisce alla protagonista.

Seconda scena. Fotografie della lavoratrice vista dalla parte del sedere, commenti e ammiccamenti totalmente estranei all’essenzialità dei rapporti di lavoro. L’azienda è a conduzione familiare.

Terza scena. Seduti intorno al tavolone Fs, un gruppo di studenti bisognosi di denaro prima che di lavoro. A loro è affidata la gestione di un call center inbound, con le telefonate in entrata. Se vuoi fare una pausa, schiaccia questo pulsante e il telefono risulterà occupato. Se non sai rispondere alle richieste e non sai dare una motivazione ai disservizi, fai riferimento a un guasto sulla linea in fase di soluzione: se non c’è, inventalo.

Quarta scena. “Tingiti i capelli, sei l’unica con i capelli rossi. I clienti guardano soprattutto te. E si abbassano le vendite delle altre commesse.”

Quinta scena. Per certe posizioni addirittura ci si azzarda a chiedere prestazioni sessuali: un book fotografico gratuito se sei carina con il fotografo. Essere carina presuppone accettare proposte esplicite.

E sesta, settima scena. E altre ancora.

La protagonista di Sara Root, cioè la scrittrice in versione protagonista, ha un alto livello di adattabilità. Ma traccia una linea di confine netta che non supera.
E’ il confine di se stessa. Vendo il lavoro, ma io non sono in vendita. Nella rocambolesca storia di questa carriera da lavoratrice precaria.
Contratti di lavoro brevi, obiettivi da raggiungere alti. Vendere, sorridere, ordinare e vendere. Le responsabili che capitano alla candidata protagonista sono donne e tutte molto curate e al limite di una crisi di nervi. Una competizione strisciante al femminile e mai palesemente dichiarata. Le giovani lavoratrici sono tutte laureate e in condizione di necessità. Le responsabili sono più grandi, frustrate e feroci.
Sara Root si permette sprazzi di ironia, con venature al vetriolo.
Perché di fondo rimane la grande forza della protagonista: il suo talento. Non riconosciuto da nessuno dei referenti aziendali. E’ questa la vera sconfitta sociale.
Al selezionatore può sfuggire il potenziale del candidato nella brevità temporale dei colloqui di lavoro. Grave, gravissimo e perdente quando l’azienda non investe e non valorizza un talento non perché non voglia o non possa farlo. Ma perché non lo riconosce.
Non riconoscere e non valorizzazione un talento significa castrare il futuro. L’imprenditore ha una responsabilità sociale.

Sfruttamento.
Sfruttamento è il non adeguato riconoscimento economico di una prestazione professionale.
E’ la sfacciata dominanza imposta al lavoratore. E’ una beffa al contratto di lavoro.
Alla parola sfruttamento Sara Root aggiunge gli aggettivi: femminile, maschile, giovanile. E ancora: sfruttamento di candidati in stato di necessità, competizione al ribasso, dumping.
E’ una creativa, una romanziera. Non chiama per nome i fenomeni.
Li mette in testa al lettore.
La parola sfruttamento è stampata in faccia alle figure del romanzo. Descritte fisicamente con tratti essenziali di matita.
I corpi dicono il disagio.
Gli atteggiamenti - un lavoratore contro l’altro - dimostrano la tensione, la preoccupazione e la paura di perdere il precario risultato raggiunto: un lavoro povero, un mini-job nella confezione altisonante di una definizione ricercata.

Milano, Roma.
Milano, anni Novanta. Sara Root fissa nell’immediatezza delle sue fotografie letterarie le immagini del capoluogo lombardo negli ultimi decenni del vecchio secolo. Sono i ricordi rielaborati da una giovane donna, scritti sul taccuino della memoria emotiva dalla bambina e dall’adolescente.
La società cambia: agli italiani si aggiungono immigrati extracomunitari; le classi di studenti nelle scuole diventano plurietniche e multicolore. Le politossicomanie invadono le aree di disagio. La grande distribuzione comincia a cavalcare le tattiche commerciali del fast: fast fashion, fast food, consumo fast. Vita isterica.
Milano è il primo scenario dello spaccato sociale. Roma, fatte le dovute differenze, l’alter ego della città lombarda con temperature e disorganizzazione più alte.
Il romanzo è una commedia sociale se osservata attraverso un grandangolo. Un dramma se vissuto in prima persona, nelle vesti di candidati e lavoratori.
Roma rappresenta la possibilità di un nuovo inizio, la ricerca di un lavoro in linea con la formazione culturale.

Sesta scena. Il lavoro a Roma ricomincia in un bar, dove si lavora di sera e di notte. E dove arriva la finanza a controllare, alla quale la lavoratrice deve dire di essere in prova. Alla seconda visita della finanza, il titolare la licenzia: la milanese porta sfortuna. Glielo dice alla romana.

Settima scena. Delusioni a catena. Il contenuto del lavoro si avvicina al talento. Alla lavoratrice è richiesto di andare oltre, anche oltre le proprie competenze. Deve occuparsi anche della grafica. Fino alla scena madre di isteria, recitata dal collega con il quale sembrava essersi instaurata una parvenza di amicizia professionale. Di contratto in contratto sempre flessibile: si va avanti così. Al termine, nessuna risurrezione. Un altro lavoro, un altro spettacolo. Il solito tonfo nella stasi della disoccupazione.

Pensiero laterale e impresa.
La palude della disoccupazione è il setting del romanzo. Una condizione fisica prima che psicologica. Il senso di impotenza si traduce in ansietà, inutile anticipazione del temuto futuro. E nella disperazione della sconfitta, conseguenza del senso di inadeguatezza.
“Aria precaria” è una denuncia. Romanzo d’esordio della scrittrice.
“Eccomi qui, Sara Root, classe 1981, equilibrista certificata, perennemente in bilico in questo mondo di aria precaria.” Ma viva. Di penna e di spirito.
Sara Root, Aria precaria, Cairo, 2012

 

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