L'equipe nefrologica dell'Istituto Giannina Gaslini di Genova dimostra per la prima volta a livello internazionale, che bambini immunodepressi per trattamento cronico di malattia renale severa, non hanno un rischio aumentato di contrarre Covid-19.
In epoca di Covid-19 molte comuni pratiche terapeutiche hanno dovuto subire delle necessarie rettifiche. In campo nefrologico, non era chiaro se le terapie immunosoppressive (terapie a base di anticorpi antiCD20 Rituximab o Ofatumumab, largamente impiegate in soggetti adulti o pediatrici con diverse glomerulopatie) potessero predisporre a contrarre l'infezione di SARS-CoV2 o a sviluppare una malattia più grave.
"Un effetto collaterale della pandemia Covid-19 è l'aver ridotto le cure dei pazienti con malattia immunologica ed autoimmune, nella convinzione che le stesse aumentassero il rischio e la severità dell'infezione da SARS-Cov-2. Si calcola che circa 1 milione di persone nel mondo siano a rischio di 'sotto-trattamento' e di riaccensione della malattia da cui sono affetti. La convinzione, non provata scientificamente, diffusa fra gli specialisti del settore rischia di produrre danni in termini di salute quasi paragonabili all'infezione da SARS-Cov-2 stessa", spiega il dottor Gian Marco Ghiggeri Direttore dell'UOC Nefrologia dell'IRCCS Giannina Gaslini.
I nefrologi utilizzano terapie immunosoppressive come ad esempio quelle a base di anticorpi antiCD20 (anticorpo monoclonale per curare la sindrome nefrosica) che hanno un lungo effetto nel tempo.
Il Gaslini fin da febbraio 2020, all'inizio della pandemia, ha creato due osservatori sui pazienti italiani, pubblicati sulle riviste delle Società Americane di Nefrologia e di Trapianto e in particolare su CJASN.
Sono stati selezionati in maniera 'unbiased' (tutti i bambini trattati negli ultimi 3 anni) 300 bambini e giovani adulti dei quali 159 trattati con anticorpi anti-CD20 per sindrome nefrosica dipendente ai farmaci, e 160 con trapianto renale trattati con immunodepressione standard per prevenire il rigetto.
In nessun caso, e pur avendo avuto 7 pazienti che avevano convissuto con famigliari affetti da Covid-19, si è potuto diagnosticare la malattia negli osservati, dimostrando la sostanziale resistenza al Covid-19, pur in presenza di importante immunodepressione.
"Lo studio permette di concludere che durante il periodo Covid è possibile usare immunodepressioni importanti, massicce, senza aumentare minimamente il rischio di contrarre il coronavirus, si può ipotizzare che abbiano addirittura un ruolo protettivo. Tale dimostrazione, definita dalla stampa scientifica internazionale come eccellente, cambierà il destino terapeutico di molti pazienti che riprenderanno un adeguato trattamento, come la severità delle malattie di base richiede", conclude il dottor Ghiggeri.