Perché un anno della fede? Nell'indire questo evento straordinario il Papa - come egli stesso dichiara nella lettera motu proprio «Porta Fidei» - ha inteso far riflettere ciascuno di noi sul fatto che la fede non può considerarsi oggi un presupposto ovvio, neppure per chi si professa cristiano. Quello del Santo Padre è dunque un invito alla conversione, un invito a lasciarsi costantemente «evangelizzare» e tale invito non può non essere avvertito da chi nella Chiesa svolge un ministero, in particolare un ministero ordinato.
Così giovedì scorso, nel consueto ritiro del clero che si tiene a Cassego in occasione della settimana del seminario, la meditazione di monsignor Marco Fabbri, vicario generale e rettore del seminario della diocesi di Volterra, ha inteso costituire uno stimolo per seminaristi, diaconi e sacerdoti a valorizzare quest'anno per ravvivare, per se stessi e per le comunità loro affidate, il grande dono della fede. Anzitutto c'è stato il richiamo a ripartire con coraggio da un annuncio organico ed integrale della fede, senza cadere nell'errore di pensare che le questioni di fede siano secondarie rispetto ad altri ambiti dell'azione pastorale ordinaria. Molte fatiche che la Chiesa vive oggi dipendono infatti non già da una mancanza di tecniche adeguate, ma spesso da una debole convinzione in ordine ai contenuti della fede: vediamo così che i fedeli, sottoposti a tante voci e provocazioni, mancano di adeguata solidità e talora vacillano nella loro adesione alla parola del Vangelo. Tanto per i ministri ordinati, sui quali incombe l'onere grave della predicazione della dottrina cristiana, quanto per tutti i fedeli laici chiamati ad evangelizzare i diversi ambiti della realtà, l'anno della fede può dunque costituire il richiamo ad una più vivace cura della formazione cristiana, mediante un più frequente ed approfondito contatto con la Sacra Scrittura, letta nel solco della Tradizione sotto la guida del Magistero. Ma la fede, oltre che un contenuto ben preciso, è anche un atto, atto con cui ci affidiamo a Dio, ci fidiamo di Lui ed accettiamo la fatica del credere, mai priva di momenti di ombra e di dubbio. Credere significa anche prendere consapevolezza che l'inquietudine del nostro cuore è compagna di viaggio finché in Dio non trova la sua pace. In quel viaggio non siamo soli: ciascuno di noi dice «io credo nel noi della Chiesa». Credere ci rinvia dunque ad una testimonianza di fede che ci precede e da cui non possiamo prescindere. Per un ministro ordinato, in particolare, ciò significa allenare la capacità di vincere lo sconforto e l'ansia pastorale alla luce di un rinnovato abbandono nella fede, saper gustare il dono della misericordia di Dio che è più grande della nostra fragilità e tenere vivi quei canali attraverso i quali il dono soprannaturale della fede viene alimentato e rafforzato: la vita di preghiera, la celebrazione quotidiana dell'Eucaristia, il sacramento del perdono, la lettura orante della Parola di Dio. Dopo la meditazione di Fabbri, il vescovo emerito monsignor Bassano Staffieri ha guidato la celebrazione del «mistero della fede». All'omelia ha ricordato l'altra grande linea dell'anno della fede, che è la celebrazione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II, voluto dal beato Giovanni XXIII per scoprire il valore dell'«aggiornamento». Nel mutare costante dei tempi, Staffieri ha ricordato quanto sia essenziale non smettere mai questo «aggiornamento», per essere capaci di vivere nel nostro tempo e per far interagire la fede con la nostra vita concreta e con quella di tutti gli uomini che ci sono contemporanei.