La foiba di Campastrino a molti spezzini, soprattutto i più giovani, non dirà nulla. Riecheggerà forse come l’eco di un qualche avvenimento lontano e non ben definito, in Istria o nell’area giuliano-dalmata, opera dei partigiani del maresciallo Tito.
Una storia a lungo (colpevolmente) dimenticata, di cui venerdì in Sala Dante si è svolta la commemorazione durante un consiglio comunale straordinario.
Eppure la foiba di Campastrino non si trova a migliaia di chilometri di distanza da casa nostra, ma proprio qui, nella nostra provincia, per la precisione a Riccò del Golfo. Incredibile a dirsi, ma è proprio così.
Lo ha ricordato ieri il quotidiano La Verità, ricostruendo una storia tutta spezzina, che oggi vi riproponiamo.
Sul fondo del crepaccio della foiba di Campastrino, ancora oggi, giacciono i resti di ottanta soldati della Wehrmacht e della X Mas. Ossa ricoperte da rifiuti, che a distanza di decine e decine di anni non sono ancora state recuperate, anche per via di un restringimento della voragine e della presenza di alcuni residuati bellici, fattori che complicherebbero non poco l’operazione.
Qualcuno però in passato ci ha provato: Giuseppe Zanelli, ufficiale del Regio esercito, poi membro della X Mas e delle Brigate nere, che nel 1972 organizzò un gruppo speleologico per verificare l’attendibilità delle voci su Campastrino. Risultato: “Durante l’estrazione delle prime ossa fu recuperata anche una Tellermine (mina anticarro) tedesca che condusse i Carabinieri a bloccare l’operazione”, scriveva ieri la Verità.
Nel 2007, per ultimo, lo studioso delle foibe Marco Pirina, oggi scomparso, mise insieme una squadra di volontari che si calò all’interno della foiba. Poi, fino ad oggi, più nulla.
“Furono due le precipitazioni - ha raccontato ieri a La Verità l’avvocato spezzino Emilio Guidi - La prima avvenne durante la guerra. Mentre la 148^ divisione tedesca si sganciava verso la Pianura padana, un suo reparto forse rimasto senza ordini o tagliato fuori, scelse la strada verso Genova. I militari incapparono, presso san Benedetto, nei 400 partigiani comunisti e azionisti delle divisioni “Vanni” e “Giustizia e Libertà”. Dopo aspri combattimenti, circa dieci soldati rimasti ancora in vita furono catturati e ristretti in una casupola di legno nel bosco, priva del tetto. Qualcuno parla di un tentativo di fuga, fatto sta che i partigiani lanciarono dentro la baracca delle bombe a mano e li ammazzarono tutti. Per disfarsi facilmente dei corpi li gettarono nella foiba di Campastrino”.
Il secondo episodio, ricostruisce sempre Guidi, avvenne dopo la fine della guerra: vittime cinquanta prigionieri italiani e tedeschi del castello di Calice al Cornoviglio, gestito dal partigiano azionista Luigi Carbonetto.
“Costui, dovendo consegnarli agli americani presso La Spezia, li affidò a un gruppo di partigiani rossi che già detenevano altri 20 tedeschi nella caserma di GNR di Via Vecchio ospedale a La Spezia. Era il primo maggio e i comunisti celebrarono la Festa dei Lavoratori a modo loro. Invece di consegnarli agli americani, li portarono a Campastrino e qui, come raccontava lo stesso Carbonetto, li infoibarono”.
Durante la prima spedizione del 1972, se non altro, furono recuperate tre piastrine tedesche. Oggi conosciamo i nomi di due soldati, i soli ad essere usciti dalla foiba di Campastrino: Walter Demann e Karl Abe.
Per il resto, sulla foiba di casa nostra, non c’è nessuna lapide, nessun cippo commemorativo. Ci sono solo i rifiuti, nel crepaccio, a coprire i resti di esseri umani. E nessuno ricorda.