E’ uscito da poco in libreria un vecchio reportage di Pier Paolo Pasolini pubblicato nel 1959 sulla rivista “Successo”, Edizioni Guanda, si intitola “La lunga strada di sabbia” (introduzione di Paolo Mauri) ed è la riproposizione (con qualche piccolo inedito) di quel lungo viaggio estivo che Pasolini fece allora lungo tutte le coste italiane, partendo dal confine di Ventimiglia, giù giù fino in Sicilia per poi risalire dalla Calabria ionica e per tutto l’Adriatico fino al confine con la Jugoslavia. Un viaggio fatto di pennellate veloci sulle località incontrate, di piccoli cammei, in quell’Italia balneare uscita da poco dalla guerra.
Una delle tappe pasoliniane di quel viaggio passò anche a Spezia, San Terenzo e Lerici, in una lontana domenica del giugno 1959, una giornata che lo scrittore definisce “una fra le più belle domeniche della mia vita”.
Ecco come Pier Paolo Pasolini descrive i nostri luoghi e gli incontri che fa sul molo di Lerici.
“La Spezia è deserto. E’ domenica. Biancheggiano i marinai. Tutta la gente è al mare, per il golfo. Comincia una fra le più belle domeniche della mia vita.
San Terenzo è un piccolo paese prima di Lerici: la spiaggia è in piazza. Le porte delle case e dei caffè danno sulla poca sabbia: e, sulla poca sabbia, si è rovesciata la folla delle grandi giornate estive. Una stupenda fiera, tutta rossa, blu, verde, dove i giovinetti, i bambini, le mamme, i marinai, la povera gente, si ammucchia festosamente, tra grida, risa, giuochi.
Al centro della festa è Lerici: non ho mai visto tanto e così perfetto sole. Il caldo non è ancora eccessivo, non c’è bisogno di andare a fare il bagno. La gioventù passeggia per le strade come in una domenica di primavera.
Una lunga carrellata sul molo di Lerici, sotto il monte fitto di case, lungo il porticciolo, sarebbe un intero film. Una fila lunga un centinaio di metri, di povera gente, con la schiena contro i massi di pietra, seduta al fresco: vecchi, pensionati, malati, coppie di fidanzati. Stanno quasi in silenzio, guardano lo spettacolo del paese e del mare. Davanti a loro, sul molo, si svolge un vero carosello: una donna anziana che pesca, mordendosi la lingua; mucchi di marinai, ragazze: poi ecco laggiù sulla punta del molo dei ragazzi in mutandine, che gridano, ridono, facendo il bagno: intorno a loro altra gente: giovanotti con gli occhiali neri, stranieri, coppie, tutti ammassati lì, in quei due metri di pietra.
Sull’estremità del molo, in una rotonda con una colonnina di pietra per il fanale, stanno distesi due uomini anziani, grassi, sudati, sbracati: non guardano niente, non gliene importa di niente: sono solo due sagome contro un lontano, trasparente profilo di montagne sul mare. Sotto di loro, sui massi, una coppia si abbraccia, senza pudori. Lui è un grassone cattivo, tosto, col berretto da idiota sulla fronte, gli occhiali neri, dei brutti peli sul petto ciccione: lei una racchia altrettanto cattiva e stupida. Poveracci, provano piacere a mettersi le mani addosso.
Solitaria, in questa specie di bolgetta, seduta s’un masso, una ‘ninfetta’: ha uno strano costume grigio ferro, quasi sporco o almeno scolorito dal sole, che la copre tutta, eccetto che il seno appena spuntato e le spalle: sembra un costume della nonna: ma dev’essere di un’estrema eleganza, benché povero e rimediato: lei è una ragazzina del popolo: ma i suoi precoci quattordici anni fanno quasi paura. Così passa la sua prima adolescenza una Manon: a esibirsi, calda, popolana, innocente e già perfida, già conscia non del bene, ma del male che c’è nei suoi seni appena spuntati, nei suoi capelli biondi ancora da bambina”.