Dopo più di 70 anni potremo ammirare nuovamente il mosaico policromo a decorazione geometrica di epoca romana venuto alla luce nel 1824 nel sito dell’antica Luni. Apparteneva originariamente ad un unico grande pavimento musivo lungo diciotto metri e largo dieci come descritto da Paolo Podestà che lo rinvenne lungo la Via Aurelia e lo divise in dieci parti per adattarlo a pavimento nella propria abitazione di Sarzana. Non sappiamo a quale edificio fosse destinato l’intero mosaico, non si esclude che fosse diviso in ambienti diversi anche consecutivi.
In seguito i mosaici vennero acquistati da Carlo Andrea Fabbricotti che li inserì nell’allestimento del Museo Lunense con l’intento di radunare il maggior numero possibile di reperti provenienti dall’Antica Luni. Nel 1938, dopo lunghe trattative tra le istituzioni cittadine e gli eredi Fabbricotti, l’intera collezione di mosaici venne acquistata dal Comune della Spezia. Promotore dell’operazione fu l’allora direttore del Museo Civico Ubaldo Formentini che sistemò i mosaici nella nuova sede museale nell’ex Convento delle Clarisse, collocandoli a pavimento in un basamento di cemento.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, Formentini cercò di salvare la collezione del Museo trasferendola a Brugnato. Tuttavia i mosaici comportavano difficoltà oggettive di movimentazione in quanto troppo grandi e pesanti da trasportare, per cui rimasero nella loro sede. Sebbene si cercò di proteggerli con sacchi di sabbia e puntelli di legno, subirono gravi danni a seguito del bombardamento dell’edificio e per i successivi atti di vandalismo e effetti delle intemperie.
Dopo la fine della guerra i frammenti dei mosaici vennero recuperati dalle macerie, inseriti in casse e portati nei depositi comunali. In previsione di una riapertura del Museo Civico in altra sede, nel 1956 venne chiamato l’Istituto Centrale del Restauro di Roma per il recupero dei pavimenti in mosaico. Venne data priorità a quelli figurativi ritenuti più significativi, nonostante la quantità di materiale superstite fosse inferiore a quello di alcuni mosaici geometrici che si trovavano in migliore stato di conservazione, ma più frammentati. In questa fase aveva collaborato anche l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze catalogando il materiale a disposizione.
Nel tempo, però, i frammenti relativi al mosaico oggi restaurato e agli altri non ricomposti negli anni cinquanta si sono confusi e mescolati. Nel 2018 l’Istituto fiorentino è stato nuovamente chiamato a collaborare per intervenire sul mosaico. L’Opificio delle Pietre Dure è un Istituto autonomo del Ministero della Cultura, specializzato nel restauro delle opere d’arte, la cui origine può essere fatta risalire alla Manifattura granducale fondata da Ferdinando de’ Medici nel 1588.
“L’Opificio delle Pietre Dure – spiega il Soprintendente Marco Ciatti – opera al servizio dei beni culturali nazionali e svolge la sua mission attraverso la forte capacità operativa dei suoi laboratori di restauro, i progetti di ricerca e sviluppo e la formazione dei restauratori. Nel caso del mosaico del Museo della Spezia queste tre linee di attività hanno agito in maniera sinergica riuscendo a restaurare e rendere fruibile questa antica opera. La materia del mosaico è stata restaurata e si è inventato un innovativo sistema di ricomposizione che senza falsificare l’opera consente una chiara lettura dei suoi valori artistici”
“Stiamo facendo un percorso molto importante sulla storia della nostra città – dichiara il Sindaco Pierluigi Peracchini - In questi mesi con gli archeologi stiamo cercando di capire se nell’ex Convento delle Clarisse ci siano ancora reperti. Ringrazio l’Opificio delle Pietre dure e spero di poter collaborare anche su tante altre opere considerando l’attività attualmente svolta nel sito delle Clarisse e non solo. Stiamo considerando di recuperare dal punto di vista archeologico anche un’altra zona vicino al Campo Ferdeghini al Limone”.
“Grazie alla collaborazione con l’Opificio stiamo riuscendo a recuperare tante opere ospitate nel Museo del Castello – interviene Donatella Alessi Funzionario Responsabile del Museo del Castello - Questo è uno dei 10 mosaici della collezione Fabbricotti che provenivano da Luni, le informazioni sul ritrovamento sono imprecise. E’ stato trovato da Mauro Podestà nel 1824 lungo la Via Aurelia, vicino alla Porta Est di Luni. Il lavoro di ricomposizione è davvero complicato perché tutti i mosaici sono diversi. Molti pezzi sono ancora nei depositi”.
L’intervento, effettuato in parte nell’ambito di una tesi di laurea della Scuola di Alta Formazione operante all’interno dell’Opificio, è stato concluso dai restauratori del Settore mosaico e commesso in pietre dure diretto da Anna Patera. Gli specialisti dell’Opificio hanno anche curato le successive fasi di montaggio in previsione della presentazione al pubblico.
“Il lavoro di restauro è durato 18 mesi, da dicembre 2018 a luglio 2020, ma è stato pieno di soddisfazioni – ha dichiarato Anna Patera - Abbiamo iniziato con un lavoro di censimento e catalogazione dei frammenti suddividendoli per i vari mosaici. E’ stata utilizzata una tecnica reversibile, aperta, riempiendo le zone vuote con materiale mobile in modo che se altri pezzi del mosaico verranno trovati o nel sito dell’ex-Convento delle Clarisse o nei depositi questi potranno essere inseriti nella composizione anche in un secondo tempo. I primi mosaici ad essere ricostruiti negli anni ’50 sono stati quelli figurativi, mentre quelli geometrici sono stati lasciati da parte in quanto la ripetitività dei disegni rendeva la loro ricomposizione complicata”.
Questo lavoro di restauro è stato l’oggetto della Tesi di Laurea di Arianne Palla: “La parte più interessante e stimolante del lavoro è stata la sfida di ricomporre i frammenti, attività giudicata impossibile solo alcuni decenni fa. Non sapevamo quanti e quali frammenti appartenessero a questa figura e quindi abbiamo dovuto trovare una soluzione per restituire un significato ai reperti in nostro possesso. Dunque è stato fatto un primo restauro a computer ed è stato progettato un sistema aperto, con una procedura che ha previsto l’utilizzo di tecnologie digitali e una parte operativa fisica sui frammenti”.
Sulla tecnica operativa di ricomposizione è intervenuta la Dottoressa Francesca Toso che ha seguito Arianne nel lavoro di tesi: “I frammenti sono stati posizionati con un sistema di sostegni previsto per ogni frammento e facilmente applicabili ad un pannello unico di sottofondo, un pannello alveolare. Ai sostegni sono state applicate delle fascette di velcro che consentono una certa rimovibilità. Questi sostegni sono stati studiati perché il nostro obiettivo era quello di mantenere integri gli strati di sottofondo, perché è importante conservare memoria anche delle tecniche esecutive per capire quali malte, leganti e inerti utilizzare. Dunque volendo mantenere tutte queste informazioni abbiamo dovuto trovare un sistema di sostegni che rispettassero anche le altezze di ciascun frammento. Con un sistema uncino-asola il sostegno si blocca con il pannello di fondo. Il mosaico è stato recuperato al 40%. La lamina di polietilene della base ha consentito di stampare sulla superficie il disegno di massima grazie all’esistenza di una fotografia del mosaico fatta prima della guerra, quindi il disegno è stato tagliato con il laser e accostato ai frammenti”.
“Non è stato semplice scegliere il colore della stampa – ha aggiunto Francesca Tosi - perché era necessario mantenere la valorizzazione dei frammenti senza far emergere troppo lo sfondo. Abbiamo dovuto anche capire come presentare il lavoro in modo che la metodologia fosse coerente con il restauro, differenziando la parte che esiste dalla parte mancante. Il fondo è stato montato leggermente sotto livello rispetto ai frammenti per arretrare e dare più importanza a quanto rimasto”.
Il Museo del Castello da maggio avrà il seguente orario di apertura: 9.30 – 17, lunedì pomeriggio e martedì chiuso.
Per informazioni:
tel. 0187/751142
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