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Quando si parlava sprugolino: viaggio nel nostro dialetto. 2) Il “latinorum” entra nel linguaggio In evidenza

di Pier Giorgio Cavallini - Eccoci al secondo appuntamento della nuova rubrica a cura del grande dialettologo della nostra città. Questa volta l’autore esplora quelle espressioni classiche, provenienti dal latino, che noi spezzini siamo riusciti a storpiare e a trasformare in sprugolino puro (“orate pro nobis”: invito alla preghiera o richiesta di pesce fresco per il prete?).

"Che vuol ch'io faccia del suo latinorum" sbotta Renzo di fronte a un Don Abbondio che, in palese difficoltà, gli sciorina gli impedimenti dirimenti alla sua unione con Lucia. Il caso (grammaticale) più fortunato a livello popolare dell'idioma di Roma lo ritroviamo, ridotto alla sola desinenza, e in buona compagnia, anche nel nostro dialetto. Dice, infatti, Ubaldo Mazzini per bocca di Don Loenso, dito Rèsca seca, nel XIII sonetto del poemetto A passion do Signoe, quando i giüdei cercano di convincere Giuda a tradire il Cristo:

I se feno 'npromete 'n gran segreto
Ch'i n'aveai 'ito gnente con nissün;
Pòi i ghe feno portae 'n àotro cicheto,
E i deno n'ocià 'n zio, se quarchedün
Stasse a sentili, e visto tüto queto,
I comenseno a dighe en pò pe' ün
Che se saai tratà de fae 'n corpeto
Pròpio daveo de queli nǜmeo ün;
Ch'i ne miavo aa spesa che ghe füsse,
Che 'n sèrti afai miaghe ne conven,
E i ghe conteno 'r con, o ron e 'r büsse.
- A vedeemo! - i fe Giüda Scariòto -
- Quant'a me de? - Trenta palanche - Eben,
Feve vede stanòte 'n pò tardiòto -.

Er con, o ron e 'r büsse sono, intuitivamente, la preposizione cum e le desinenze -orum e -ibus del latino classico, e un'espressione analoga è presente anche in lingua, come attestano il Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia, vol. V. s.v. ÈTTE, su un esempio dell'Arcade Angelo Maria Ricci: "... / sebben poi non si sa come/ c'entrin l' 'ette', il 'conne' e il 'ronne' / a pretender ch'abbia nome/ non già 'Fio', ma 'Issilonne' " e il Vocabolario degli Accademici della Crusca s.v. CONNE: "Nome che si dà all'abbreviatura segnata C̦, che si pone alla fine della Croce santa che s'insegna a' fanciulli. L'ette, il conne, e il ronne, cioè &, C̦, ꝶ". Per inciso, Isselon è anche il barcaiolo che ha messo in salvo Garibaldi portandolo al Varignano, stando ai versi di Silvano Ratti in dialetto santerenzino; barcaiolo o, meglio "padrone marittimo", così soprannominato perché non riusciva a pronunciare la parola "ipsilon". Si noterà, nel componimento citato - che segue - la fonetica "arcolana" che contraddistingue - diversamente dal lericino - il dialetto di San Terenzo.

Er mi paese
Drento na conca en mèzo a doi castèi,
ai pe de na colina senpre en fioe,
e senza economia basà dao soe,
gh'è San Teenso fra i paesi bèi:
solo a natura l’è sta generosa! ...
l’òmo per lu gi-ha fato pòga còsa:
na fia de ca che i vèci pescadoi
gi-han misso su madon sorve madon
con tanti sacrifici e privasion,
solo pe’ a giòia de lassagi a noi.
E tra stia cala dòmina sovrana
a Gesa da Madòna del’Aena.
Stòria i n’ha pòga, perché i santeensin
ùmili pescadoi senza pretesa,
i stéven tapà en ca solo en difesa
quando i pirati i oréven fae botin
e come arma i gh’aven di caodron
pien d’àigua càoda per scotae i predon.
Tra questi vèci, aoa che a me ramento,
gh’è sta Azarini dito anche “Isselon”
ch'i gi-ha portà, logà ent'o so barcon,
Giusèpe Garibardi a sarvamento
con na semplicità che en barcaié
i porta a genta en barca pe' i dinè.
E aoa che Santeenso ho decantà
vegnìlo a visitae, de amento a me!
però ste atenti perché s’a bevé
quel’àigua ch'enzà tanti l’ha stregà,
e a remané encantà daa so virtù
a meté tenda e ... a ne repartì pu!.

Torno tra poco sulla Santa Croce.

Sempre a proposito di banalizzazione e cristallizzazione dei casi della declinazione latina, anche da noi si può dire conquibus per il denaro, accanto ai più classici palanche, dinai, monea, sòdi, franchi, pila, brata; lia è, sì, anche la "lira", ma nell'antico spezzino era la "libbra". Così Ubaldo Mazzini nella celebre Cansoneta de carlevà del 1891, A Spèza de na vòta e quela d'aoa:

Se ghe stava mèi na vòta
quando l'ea ciü picenina,
a ne gh'ea lazǜ aa maina
ni a fontana e ni o giardin.

Aloa 'r vin i vaeva pògo,
pòghi sòdi 'r pan aa lia,
aoa 'nvece i ne se pia
che con tanti e bèi quatrin.

Lo Spezzino, attento risparmiatore, ha risparmiato anche sul "plus" dell'espressione "non plus ultra", per cui, di una cosa superlativa, dirà semplicemente i è 'r plusultra, con una bella esse sonora.

È ovvio che, per ragioni storico-culturali, il latinorum che è penetrato nello spezzino e nei dialetti della Lunigiana Storica, e non solo in quelli, sia mediato in larga parte dal latino ecclesiastico. E così troviamo un Santo Nèrgo per il "tantum ergo" del Pange Lingua, non l'unico santo inventato dai dialettofoni e dal popolo in generale: basterà infatti ricordare il Sant'Alò, che prima morì e poi s'ammalò, la Santa Netezina, la "scarpetta" nostrana, che ricorre nell'espressione fae Santa Netezina, ovvero ripulire a fondo il piatto dagli avanzi del cibo, e il santo - tutto nostro - Inbon, cui è dedicata la celebre piazza che si schiude ai piedi della Stazione: Ciassa Sant'Inbon. E poi c'è la Santa Croze, che era l'abbecedario, non legato a ricordi di scuola molto positivi, se prese piede il detto: Santa Croze benedeta/ a maistra la me da/ la me da co' a se bacheta/ Santa Croze benedeta. Era così detto, l'abbecedario, perché recava nella copertina (le copertine dei libri si chiamavano i carton) l'immagine d'una croce.

Dei santi, quelli veri, ha destato parecchia curiosità nel popolo nostrano San Tommaso, termine di paragone per coloro che non si fidano, per i quali, a sentire i Biassei, vale il detto: Èsse cume San Tumasu: sentie cun e man e tucaghe con u nasu. Con un drastico capovolgimento sensoriale.

Ma torniamo al latino, e troveremo che il "turibolo" a Biassa lo chiamavano u terìbile, che in spezzino "venite adoremus" diventa vegnie ao reme, nel senso di "venire al punto" e che ad un poveraccio smunto e macilento, oltre che apostrofarlo col classico te me pai a Mòrte Cicheta, si poteva anche dire: te me pai Ciòmo (l'"ecce homo" di pilatesca memoria).

Per non parlare del dòmino sbobisco, la versione locale del fine messa ("Dominus vobiscum", oggi "il Signore sia con voi"), o del canto della Pastorella, intonato a squarciagola la notte di Natale, che iniziava con il classico fraloridoridò ("fra l'orrido rigor"). Ricordiamo che in spezzino non si fa il segno della croce, ma o nome der pae. Ma sicuramente l'adattamento più audace di tutti è quello del monito "memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris" pronunciato dal sacerdote (prete, parco, preòsto, retoe, tenendo presente che il prete - in Val di Magra pronunciato con la è aperta - è anche un pesce, che deve cotanto nome alla livrea nera e allo scarso valore alimentare e, come in lingua, è pure l'intelaiatura che teneva sollevate le coperte quando si utilizzava lo scaodin) nella ricorrenza delle Ceneri, che l'irriverenza spezzina ha trasformato in mementòmo e mementon, per voiàotre dòne a gh'i ho 'nt'i caosson!. Penso che ogni commento sia superfluo.

E, a livello di battuta, ricordiamo il fraintendimento del famoso "orate pro nobis", che all'orecchio popolare suonava, oltraggiosamente, come una promessa - o minaccia - d'accaparramento di buon cibo da parte dell'officiante, ovverosia le "orate" per il prete, e, magari, i ghigioni per il popolo.

E non ci si faccia infine ingannare se si sente parlare di bucolica: non ha niente a che fare con la forma poetica latina in cui Virgilio (Vergì, in spezzino, nome ambigeno) eccelleva, ma è uno storpiamento di buconica che, mentre a Biassa è uno dei tanti sinonimi di "fame" in uso nei nostri dialetti (per citarne alcuni: badaciona, lüscia, baiorda, bazina), in spezzino significa "vitto".

Anche i Vangeli hanno lasciato traccia nel dialetto, in particolare quello secondo Marco, il cui incipit suona: "Initium evangelii Iesu Christi Filii Dei/ Sicut scriptum est in Esaia propheta/ 'Ecce mitto angelum meum ante faciem tuam;/ qui praeparabit viam tuam/ vox clamantis in deserto;/ parate viam Domini rectas facite semitas eius' ", che riecheggia nel nostro: Predicatoe che predichi ao desèrto/ predicae per me l'è tenpo pèrso.

La Bibbia trapela anche nell'espressione lèze a vita ("rinfacciare a qualcuno tutte le sue malefatte"), che non ha nulla a che fare con zingare e chiromanti, ma deriva dall'espressione "leggere il Levitico", prassi diffusa nel mattutino dei conventi. Nel lericino il concetto di "tirarla per le lunghe" si rende con fae de sinagòghe, con evidente riferimento alla lungaggine dei canti e dei riti imperniati sulle letture, tipici delle religioni semitiche.
E a proposito di zingari, non si è mai capìto perché di uno che si dà molte arie si dicesse i ha mangià mèrda de sìngheo.

Vi sono poi casi di banalizzazione del termine, come in cibòrio (o cipòrio) che, perso il significato di "tabernacolo", è passato ad indicare una cosa strana o ingombrante.

Non è stata solo la religione cattolica ad influenzare i dialetti; pensiamo ad esempio al ramadan, spesso spezzinizzato in rabadan, che vuol dire "grande confusione". E sempre in àmbito mussulmano andrà ricordata l'espressione te l'è vista maòma, nel senso di "hai passato un brutto quarto d'ora", che sembra avere attinenze con l'arabo Profeta.

Non sarà invece da ricondure a Timur lo Zoppo (Timūr Lang > Tamerlano) il nostro tanberlan, che vuol dir "babbeo", e che è anche di lingua, dove significa "alambicco" o "recipiente per asciugare la biancheria". Il senso di "alambicco" lo ritroviamo in Alta Val di Vara, dove tamberlâ vuol dire "travasare il vino".

Anche l'antica mitologia ha lasciato traccia nei nostri dialetti. In particolare sono da ricordare e menà (a Biassa e menade), che non è difficile ricondurre alle Menadi, le Baccanti. Nella cultura dei nostri avi erano le processioni delle anime dei morti che all'imbrunire uscivano dai cimiteri, e sempre a Biassa i vecchi dicevano: Candu suna l'avemaia tüti i mòrti i èn pe' la via. Il rischio, che non valeva la pena di correre, era che la nefasta processione, una volta incontrato un malcapitato sulla sua strada (specialmente se bambino restio ad andare a letto), lo avrebbe portato con sé. Una curiosità toponomastica (e autobiografica): la casa dove abito al Limone, in Salita Santa Teresa del Bambin Gesù, sorge in località c.d. e Menà, e la tradizione vuole che, alla sera, dalle case in alto sulla collina di Brigola, si vedessero appunto queste processioni. La "sacralità" del luogo, nei pressi della necropoli romana di Melara, doverosamente ricoperta da un palazzo che vi è stato costruito sopra ... che fosse lì l'antica Boron?

E chiudo questa rassegna dell'antico che fa capolino nel moderno con un accenno al carnevale, che nella forma spezzina ricorda più da vicino l'etimologia del termine. Infatti il nostro carlevà è molto più simile al "carnem levare" che gli dà origine, rispetto alla forma italiana nasalizzata "carnevale".

Ma l'appropriazione delle tradizioni pagane da parte della Chiesa cattolica quando non è riuscita ad annientarle sarà oggetto di un altro capitolo di queste nostre escursioni "nella foresta del vocabolario" ("rubo" letteralmente il titolo ad un fortunato Oscar Mondadori, scritto da Aldo Gabrielli e pubblicato nel lontano 1977).

Qui la prima puntata della nostra rubrica

 

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