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Quando si parlava sprugolino: viaggio nel nostro dialetto. 1) “Fae vegnie ‘r magon” In evidenza

Cominciamo una nuova rubrica, affidata alla sapiente penna del professor Pier Giorgio Cavallini, dialettologo principe della nostra città, sulle curiosità e il significato delle espressioni sprugoline che non vogliamo disperdere o dimenticare.

Presentazione dello storico e giornalista Gino Ragnetti, co-fondatore della nostra testata:  

“Bona sea, sea, l’ha ‘ito me sea ch’a me dé ‘n po’ de sea, che poi mé sea la vegnià sta sea a pagave a sea. Bona sea, sea.

Per meglio capire: “sea” nel nostro dialetto ha tre significati: sera, zia e cera.

Questo era uno dei tanti scioglilingua con i quali noi bimbetti del dopoguerra, mocciosi che vivevano di pane e vernacolo sprugolino, ci divertivamo a snocciolare il più velocemente possibile senza cadere in errore, pena dover ricominciare daccapo. Vivevamo così, con quel poco che in realtà era tanto, avremmo scoperto con la maturità, perché c’era la gioia di vivere, una spensieratezza che ci regalava la fiducia nel futuro. Una vita della quale il gergo spezzino era compagno inseparabile.


Poi, con gli anni, tante cose sono cambiate, e anche l’uso del dialetto è pian piano venuto meno fin quasi a scomparire del tutto nella parlata quotidiana, diventando un’usanza di nicchia, patrimonio di pochi fortunati. Lo si nota anche scorrendo le pagine di Facebook dove alcuni avventurosi tentano di esprimersi nel dialetto sprugolino dando prova di buona volontà, di amore per la propria terra, ma anche di scarsa conoscenza della lingua. Perché il dialetto è una lingua! Esso è l’anima di un popolo, è un tratto caratteristico di una comunità, la quale è fatalmente destinata a perdere la sua identità quando questo collante viene meno.


Mi ha divertito, ma direi anche commosso, un fatterello al quale mi è capitato di assistere qualche tempo fa in Piazza Caduti per la libertà: due ragazzini extracomunitari, uno forse dominicano, l’altro nordafricano, presi nella foga di un litigio si mandavano bellamente a quel paese in spezzino: “Ma te devi andae a fan...”. Segno che non tutto è perduto, segno che stando insieme, da qualsiasi parte del mondo si provenga, alla fine si riesce sempre per trovare qualcosa che possa unire”. (Gino Ragnetti).

Delenda Carthago. La vendetta dei genovesi... che, però, qui non c'entra!
di Pier Giorgio Cavallini.

Mie 'n pò, quando se diza, paa 'n destin!
I n'en còse da fae vegnie 'r magon?
I ea 'n fanteto ch'i piava anca o tetin
Ch'i vorevo 'nzà fótelo 'n prezon!

Così Ubaldo Mazzini, il nostro Gamin, si esprimeva nel poemetto A passion do Signoe a proposito della persecuzione decretata da Erode Ascalonita: la famosa "strage degli innocenti", nella fattispecie ai danni del piccolo Gesù, opportunamente salvato e trasferito a cavalo a 'n ase in quel di Betlemme. Qui, però, non ci interessa l'efferata carneficina (se mai vi fu), ma la parola magon, molto diffusa in area genovese e in genere settentrionale e - ipso facto - anche in quella spezzina (ma non lunigiana), e sovente utilizzata anche nella sua forma italianizzata "magone". La fantasia popolare, e non solo quella, ma anche quella di più o meno noti etimologisti, si è sbizzarrita nel ricondurre la parola al celebre generale cartaginese fratello di Annibale, reo d'aver annichilito Genova nel 205 a.C.

Tale e tanta sarebbe stata la rabbia dei genovesi, che avrebbero appunto utilizzato, per esprimerla, il nome del condottiero, secondo il procedimento cosiddetto della "deonomastica". Chi ha studiato filologia italiana negli anni Settanta come l'estensore di queste note non potrà non ricordare il celebre libro di Bruno Migliorini Dal nome proprio al nome comune, che proprio di questi argomenti tratta. Ma sta di fatto che qui il buon (si fa per dire) Magone non c'entra. Come recita anche il vocabolario Treccani, sub vocem, magone vale "ventriglio del pollo" (quello che da noi è il magheto) e "accoramento, dispiacere (come di peso che resti sullo stomaco)". Tutta roba che ci viene da una ipotetica forma germanica entrata nel latino medievale *mago. Il passaggio da "stomaco" a "peso sullo stomaco" e quindi ad "angoscia" e simili è facile ed immediato. Ricordiamo, sempre in questa sfera semantica, che lo spezzino angossa (genovese anguscia) non significa "angoscia" ma "nausea", e del resto per esprimere l'angoscia bastava ed avanzava il termine magon. Fiorenzo Toso nel suo prezioso Piccolo dizionario etimologico ligure ci informa che la prima attestazione in genovese della parola risale al 1755 nella Gerusalemme deliverà, a cura di Stefano De Franchi. Uno che ha il magon si sappia che è enmagonà.

Rovistando nella copiosa produzione poetica spezzina trovo la parola utilizzata in uno spiritoso sonetto di Bruno Ancorini, un autore di cui altro non so se non che era emigrato in Svizzera, dove morì nel 1987. Fu finalista al premio Bèla Spèza del 1984 con la poesia T'èi tanto bèla Spèza.

Ar Consegio Comünale
(squasi dar veo)

Quand'a vedei quel'òmo dar barbon
A levae tüti i caamai d'en zio,
Me a dissi: "Questa l'è na precaüssion,
I deve avee spagheto ch'i s'i tio!".
Defati, prensipiando o remes-cion,
O sìndico i sbragiò: "Comando io!".
Ma na bòta de "Tazi, macaron!"
La 'r fe remane seco come 'n pio.
"Còso, domando la parola!". "Gnente,
Manco se te s-ciopassi dar magon!".
"Tegò". "Seòto". "Ledo". "Prepotente"!
E 'n mèzo a questa ràfega de vento,
Na guàrdia la gridava a doi pimon:
"Dove siamo, signori, al Parlamento!?".

E in questo capolavoro d'Amedeo Ricco, nato e morto alla Spezia rispettivamente il 16 agosto del 1900 e il 15 marzo del 1983. La poesia d'Amedeo Ricco, degno continuatore del Mazzini, si contraddistingue per l'accuratezza lessicale, le tematiche classiche e l'attenzione puntigliosa per la grafia. Scrisse anche alcuni testi per canzonette carnevalesche, come A gran moda (1927), musicata dal Maestro Olimpio Spina, compositore tra l'altro de L'orso dee caverne (meglio conosciuta come L'orso de Pegassan). Nel 1954 e nel 1956 ottenne premi dalla Pro Spezia, altri al concorso Vècia Spèza (1975) con la poesia Quando s'ea fanti noi e al Bèla Spèza (negli anni dal 1978 al 1981). Nel 1980 venne premiato al C. A. Federici per la poesia Envidia. Redasse la prima edizione del Dizionario Spezzino in collaborazione con Mario Niccolò Conti. Si può tranquillamente considerare Ricco il più classico degli autori moderni.

L'apüntamento

Nèrvi? A n'o sò, ma manco tròpo carmo
a lasso 'sto paese, questa sea,
onde strade e carogi marvoentea
ho zià tüto solo, parmo a parmo.
Ho lèto 'nfina e làpide de marmo
ch'i esalto 'n òmo, 'n fato opüe n'idea;
podéndolo aveai dito, aa me manea,
anca 'n passo dea Bìbia, o quarche sarmo
pe' dae sfègo ar magon. A son sta 'n gese,
ensima aa tore che sovrasta a ciassa.
Ho mià 'r panorama daa terassa
sorv'a San Nicolò, er gran pavese
issà dae ca fenì, tüte protese
vèrso a ranpa do treno, lüngo a fassa
de la dea strade nèva donde nassa
'r quarteo ciü elegante der paese.
Ho mià 'nt'er moro tüti quei che passa
e ròbe che ae fenèstre l'ea destese.
Ho sperà 'nt'a ciü bèla dee sorprese
Ch'er chèe i caessa, ch'er penseo i ne lassa.
Ho sentì, caminando, ràdio assese,
rümoi confüsi vegnie sü dar pian.
E e oe che l'è sonà d'en manaman
nissün mègio de me pè avele 'ntese.
Ho visto, coe se borse 'tacà ar brasso,
dòne ch'i retornavo da catae;
fanti ch'i ne fenivo de gozae,
vèci ch'i fadigavo a mève 'r passo.
Ho visto tüto, tüti, 'nfina quei
che la nessiva da 'n vezin cantiere.
L'è passà gente, l'è arrivà coriere,
ma te a ne t'ho visto. Donde t'ei?

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