Proprio centodieci anni fa, il 30 agosto 1910, lo scrittore Sem Benelli, tenendo a San Terenzo l’orazione funebre per Paolo Mantegazza, coniò la fortunata espressione “Golfo dei poeti”, riferita al golfo spezzino. Benelli pensava soprattutto a Shelley e a Byron, ma anche a Carducci, a Pascoli e ad altri.
Ma se la storia aveva portato molti poeti sulle rive del golfo (come anche santi, quali Solario, Venerio, Itala Mela, tanto che si è talora parlato anche di “Golfo dei santi”), alla non lontana foce del fiume Magra per vari anni ha trascorso le vacanze estive un’intera “generazione” di scrittori e di poeti, legati in particolare alla famiglia Einaudi e alla sua casa editrice.
Erano gli anni del dopoguerra, anticipatori del “boom” economico, e tra i nomi celebri che scendevano nell’allora piccola e rustica pensione chiamata “Sans Façon”, oltre a Giulio Einaudi, c’erano Elio Vittorini, Eugenio Montale, Franco Fortini, Vittorio Sereni.
Nell’estate 1950 – settant’anni fa – si unì a loro Cesare Pavese per trascorrere forse gli ultimi giorni sereni di una vita travagliata. A metà agosto, infatti, l’autore della “Bella estate”, che proprio nel mese di giugno aveva ottenuto il “Premio Strega”, rientrava a Torino, dove il 27 agosto, in una solitaria stanza di albergo, si sarebbe tolto la vita. Negli anni, numerosi interpreti e studiosi si sono soffermati sugli aspetti controversi della personalità di Pavese, che con Vittorini, Fernanda Pivano ed altri aveva contribuito alla “scoperta” ed alla diffusione in Italia dei grandi autori americani, come Whitman, Faulkner, Hemingway.
La discussione si è soffermata anche sul “senso religioso”, forse nascosto ma presente in Pavese. Ne hanno parlato nomi illustri del pensiero cattolico, da don Luigi Giussani a don Divo Barsotti, sino a Diego Fabbri, che ricorda un Pavese “esasperato ma alla ricerca di Dio”. Ebbene, proprio in quelle settimane trascorse a Bocca di Magra prima del tragico rientro a Torino, Pavese scrive alcune lettere, che è bello immaginare composte nella sua stanza con la finestra aperta proprio di fronte alla Magra: increspata dalla brezza di giorno, animata dalle grida dei pescatori di notte. Segni di vita, quelli del fiume, e non di solitudine, come quella che invece lo scrittore soffriva dentro di sé, sempre più disperato. Da Bocca di Magra scrive a “Pierina”, la giovanissima Romilda Bollati di Saint Pierre, collaboratrice della casa editrice e per lui amore impossibile. E le dice: “L’amore è come la grazia di Dio ... Ti voglio un falò di bene”. Pavese aveva capito l’amore, ma non lo aveva trovato. Poco dopo, agli amici Tullio e Maria Teresa Pinelli scriverà: “Speriamo di vederci, chi sa, magari in cielo”.
E’ bello, anche se triste, immaginarlo scrivere così e guardare silenzioso oltre il fiume ed oltre le Apuane, indicando, forse ormai più a noi che a se stesso, una luce lontana.
Egidio Banti