La Siberia è un mondo lento e aggressivo. E’ una palestra di sopravvivenza. Vivere significa stare all’erta. Controllare che il corpo mantenga l’equilibrio nella foresta del gelo d’inverno. Per uscire dal sonno al mattino bisogna forzare la porta del letargo. Volerlo e saperlo fare.
La fatica rende feroci.
E’ cresciuta qui, in una casa di legno con il triplo vetro alle finestre e le nuvole di vapore intorno ai corpi infagottati per le strade. Fuori dal centro urbano tutto è più freddo e duro. Della sua infanzia ricorda il latte venduto a blocchi oppure a fette e la scuola fino al primo pomeriggio, quando ancora il riscaldamento non ha perso la battaglia con il gelo.
Un ritmo monotono e sicuro, come lo sferragliare dei vagoni sulle rotaie che solcano la Siberia. Fino al ribaltone della Storia.
Nel 1989 ha un anno d’età ed è già una migrante: nata in una zona del sud della terra di Russia, dove anche il culto religioso esonda dal tracciato imposto dalla maggioranza al potere.
Dove un severo Allah osserva accigliato la Chiesa ortodossa.
Pelle chiara ma di tonalità più scura. Occhi a mandorla, palpebre infossate, labbra carnose, un forte e piccolo corpo. E’ arrivata da un luogo al di là del confine del freddo. In Siberia orientale dove la temperatura scende in picchiata diverse decine di gradi sotto zero.
Vita d’infanzia con la sorella a gattonare sulle assi di legno del pavimento spazzolate e ricoperte con tappeti. Poi la scuola e la vita con i bambini della sua età, l’atto primo dell’addestramento. Dopo il 1989 l’arte della sopravvivenza ha il fiato grosso per tutti, adulti e bambini. Anche se qui il freddo congela gli effetti della Storia. Fino al disgelo turbolento, fango e neve sporca ad appesantire gli scarponi. Gli scaffali sono vuoti, il denaro vale sempre meno.
L’aggressività diventa un pericolo. All’estremo lembo dell’impero anche l’informazione della fine dell’Unione sovietica arriva a rilento.
E’ un trauma da metabolizzare. Quando sua madre decide di andarsene lei è ancora una bambina. L’Unione sovietica è caduta da anni.
Fino a Mosca in treno, sul treno lento e lungo attraverso i fusi orari dell’impero russo. Transiberiana di ritorno da est verso l’ovest. Poi in aereo in un lontano ovest, in un Paese del Sud dell’Europa. Sud del sud. Scompare dalla vista della bambina. Che trascorre la vita con la nonna e la sorella per altri anni freddi, tra inverni dalle fotografie di gelo e da fiaba e il sonno profondo delle notti siberiane. Negli interstizi tra il gelo e il caldo infastidito dagli insetti, in molti decidono di andarsene. A cercare di vivere e per lanciare un salvagente a chi rimane. Nel tempo fermo dell’assenza della madre, la casa di legno si raffredda e il sonno diventa un incubo quando la nonna si addormenta per sempre, sotto i colpi di mazza di una malattia terminale.
Jakutsk, Sacha- Jacuzia, Russia, Maggio 2000
Una fotografia nuova: una figlia grande mano nella mano ad una madre congelata nella commozione. E’ una donna nuova con abiti diversi agli occhi della bambina ormai grande. Fa caldo a Milano Malpensa. In Italia per le vacanze estive e poi di nuovo in Russia. Le persone sono gentili. Sgranano gli occhi e stirano le labbra su sorrisi increduli per le parole che non capiscono, per gli occhi a mandorla e i capelli chiari. Sua madre lavora come babysitter e collaboratrice familiare. Riceve ordini ed esegue docile. Ha il solito piglio deciso come quando dirigeva l’ufficio amministrativo della fabbrica in Russia, ma lo usa per eseguire e non per comandare. La porta al lavoro. Le è permesso. Lavora in una casa con un grande parco intorno. La figlia sta con i bambini mentre la madre si occupa della casa. Legge con loro le parole che traducono le immagini dei libri di animali, di fiabe, di storie del mondo. Di sera tornano alla casa della madre, la sua casa. L’ha acquistata. Grazie al lavoro al sud a raccogliere la frutta e a fare la vendemmia. Ha sempre mantenuto un contatto con la fabbrica russa, acquistata nel frattempo da una società straniera. In fretta ha imparato a usare il computer e a fare una parte del lavoro da lontano. Sotto il sole di giorno, davanti al monitor di sera. La bambina è orgogliosa di quella madre che se ne è andata per lei e per la sorella che non ha voluto volare via dalla Siberia.
Ma non ha capito come sia stato possibile per una persona raggiungere la stabilità economica in poco tempo. La vita è costosa, gli stipendi bassi. E il lavoro serale con la fabbrica russa non è redditizio. Barlumi di pensiero che le passano per la testa quando vede i prezzi nelle vetrine dei negozi. Per lei la vita è leggera. Tutto è facile: imparare la lingua, uscire dal torpore della notte. Vivere non è sopravvivere alla bufera. Agli occhi mancano le cartoline con le case inzuccherate di neve. La memoria le riporta alla mente prima del ritiro nella grotta del sonno. La ragazza diserta il ritorno. Dopo l’estate vuole rimanere con la madre nuova, che ha denaro e documenti validi e può tenere la ragazza con sé. Nella vacanza lunga di un’altra vita. Ancora scuola per lei, nessuna fretta per il lavoro. Prima la lingua. E una vita normale. La madre nuova le risparmia fatica e umiliazione ingoiate nel primo periodo da migrante. Molte delle cose che ha vissuto e accettato non le racconterà a nessuno, tanto meno alle figlie. Lo aveva detto alla madre siberiana senza le parole, quando le aveva chiesto di ritornare indietro dopo poco tempo dall’arrivo. Il futuro è fermo, intrappolato nel permafrost: aveva risposto la Siberia. La madre russa sapeva della vita offesa. Ma la missione era per tutte loro, una cordata di generazioni di donne e forse anche per lei nella stagione verso la fine della vita. La madre nuova ha ritrovato una figlia. Il primo passo verso la fine della pena. Italia del nord, Settembre 2000.
La differenza tra questo occidente e la Russia siberiana è che il lavoro qui te lo devi cercare e trovare da sola. L’Unione sovietica era molto russa. La Russia che aveva abitato fino al duemila somigliava all’Unione sovietica. La figlia e la madre nuova cominciano insieme a osservare il mondo del lavoro per differenze. Nella Russia si aspettava. Qui ci si muove e si cerca. Disponibile al lavoro di fabbrica e d’ufficio, forte della nuova lingua pronunciata con l’accento del luogo. Voglio lavorare, mi piace lavorare. Posso cominciare domani. Convince, lo sguardo fermo della giovane donna. E comincia in una fabbrica dove si sta in linea e si controllano stoviglie, piatti e bicchieri, prima di confezionarle. Un lavoro facile. Che si impara. Più duro mantenersi in piedi per otto ore al giorno, anche se con le pause e la mezz’ora, di turno in turno, di settimana in settimana, un mese dopo l’altro. Regge il ritmo. Veloce nell’esecuzione. Somiglia alla madre. Attenta, concentrata. Lo sguardo fisso al lavoro. Puntuale, precisa. Le chiedono di insegnare il lavoro agli ultimi assunti. E’ gentile e accurata nell’impartire gli ordini di lavoro. Lavora per anni, con un contratto stabile. Lo stipendio non è alto, la vita è costosa. Ma la vita ha un equilibrio, prende la strada dell’autonomia fuori dalla casa della nuova madre e verso la maternità.
Le siberiane aggiungono due mani russe al loro girotondo ideale.
Sono pochi i russi rispetto ai migranti degli altri Paesi dell’est Europa. La lavoratrice ritorna dopo l’assenza e riprende con lo stesso ritmo al quale la fabbrica era abituata. Altri colleghi sono in linea. Lei è la più veloce, la più precisa. Abbassa il ritmo, le dicono. Altrimenti dobbiamo tutti lavorare come te. E’ una lavoratrice con una motivazione da Stachanov (eroe del lavoro sovietico, 1906-1977, che aveva aumentato la produttività della sua squadra di lavoro, ndr). E’ più forte di lei: deve sovrastare il lavoro come se dovesse conquistare la strada dentro una bufera di neve. E’ apprezzata, un modello. Il corpo piccolo e forte. La spostano al reparto degli uomini, dove deve spostare i bancali con il carrello, poi scendere e togliere il film di plastica e spostare i grandi pacchi con dentro le stoviglie. Tre mesi e la schiena comincia a impedirle di alzarsi dal letto. Le sembra di essere ritornata in Siberia quando le braccia forzavano le coperte per uscire quasi fossero un coperchio. Allena la mente e il corpo. Il lavoro è più duro di lei. Chiede di ritornare alla linea. Stachanov non ce la fai più. Stachanov ti sei fermata, hai rallentato. Non si torna alla linea rassicurante e monotona come il ritmo piatto della pianura siberiana, betulle e betulle dal finestrino del treno. La vita la si conquista. Il lavoro lo si merita. Ha conquistato il lavoro. Il lavoro non la merita. La lavoratrice non si ammala, non si assenta, non impugna il contratto. La lavoratrice volontariamente lascia il campo. Dopo avere dichiarato a voce alta la motivazione. Occhi negli occhi.
Fabbrica, Italia del nord, Ottobre 2016
Negli ultimi anni degli anni Venti del terzo millennio, la madre nuova cade nel pozzo di una depressione profonda. Il futuro si è trasformato nella porta blindata di un bunker. Non lavora più. Si è allontanata in un mondo lontano, senza collegamento ferroviario. La figlia Stachanova la osserva sbiadire.
L’est è la cura. Tre generazioni di donne in terra straniera. L’ultima nata parla il russo come l’italiano. Parla di Russia, pensa alla Siberia. Ghiaccio e terra sotto le unghie, senza avere messo piede su quella storia congelata sotto il permafrost.
Contano poco i confini per chi è nomade nel profondo.
Un ritorno in squadra dopo avere combattuto fuori casa. Olga e la sua famiglia sono ritornate nella città siberiana da dove sono partite. Hanno aperto un’attività di trasporto di legname e produzione infissi.
Alla Siberia si appartiene per sempre.
Jacutsk, Russia