Lo zingaro ha le mani con la colla. Ruba.
Il grosso agguanta la bisaccia e la lancia al gonfio. Inciampano, tra le macchine dell’officina. In una claudicante danza dai riflessi rallentati da birre scadenti e champagne. Recitano un nascondino da bambini invecchiati. La prima volta che hanno palleggiato con il suo zaino, l’operaio si è messo tra di loro e ha cercato di riprenderselo. Ridono forte, i due. Il grosso si abbassa dietro una macchina, allunga una gamba e lo fa rotolare sui trucioli. Lo zingaro si ferisce alle mani. Nessuno pulisce il pavimento alla fine della settimana.
Cade lo zingaro e tutti giù per terra.
Prendono lo zaino, lui non si muove. Gli lanciano addosso bulloni, le cose che trovano, monetine. Il gioco tra il proprietario della fabbrica e il suo rappresentante va in scena al venerdì e al sabato mattina, ogni volta che vendono un impianto in un Paese arabo.
Dal lunedì al venerdì mattina si lavora a testa bassa, senza parlare. E senza bere.
Lo zingaro non è uno zingaro ma un rumeno di cinquant’anni. Stessa età del grosso. Qualcuno in più del gonfio. Nello zaino ci sono poche cose: un libro, un panino e gli occhiali da lettura. La prima volta che glielo hanno preso, il gonfio ha scaraventato gli occhiali sul pavimento e ha schiacciato le lenti sotto le scarpe. Adesso non leggi più, zingaro. L’operaio ha preso una delle lenti, quella spezzata in due, e l’ha protetta nel pugno chiuso. Il grosso ha caricato sulla mano il peso del corpo. Ha schiacciato sulle nocche e il vetro si è conficcato nel palmo. Poi hanno giocato con il panino e lo hanno lanciato al cane nel recinto della casa di fronte all’officina. Non lo mangia neanche il cane il tuo panino. Zingaro elegante, così rimani in forma. Non ti serve leggere e mangiare. Tu devi lavorare e noi dobbiamo guadagnare tanti soldi. Ridono, si bagnano i pantaloni e non se ne accorgono tanto hanno bevuto. Completano la gag spruzzandolo di champagne, come alla fine di una gara automobilistica, mentre le impiegate guardano lo spettacolo dall’altra parte del vetro dell’ufficio: la-va-lo-zin-ga-ro, incalzano il ritmo battendo le mani sul vetro.
Così va il lavoro al venerdì pomeriggio e al sabato mattina.
Rischia di ricevere un richiamo disciplinare se non si presenta. Soprattutto adesso con tutte le commesse in arrivo dalla Giordania.
La prima volta è stata la peggiore. L’operaio avrebbe voluto sparire. Non ha avuto il coraggio di raccontare la scena alla moglie e alla figlia. Al mattino del lunedì, il grosso lo ha chiamato, gli ha dato una banconota e sì è scusato. Ha abbassato la testa e si è avviato verso l’impianto di imbottigliamento in fase di costruzione. L’operaio ha serrato le mascelle e ha stretto i pugni dentro le tasche: la mano fasciata dentro un guanto: non è andato al pronto soccorso perché ha bisogno di lavorare. Il grosso è sobrio. Ha bisogno di lui per finire una linea da consegnare alla fine della settimana. Il gonfio è all’estero spesato dal grosso. Vende impianti e paga donne di compagnia. Dal lunedì fino al mattino del venerdì il grosso è una persona gentile. Lavorano duro alla costruzione e al montaggio delle macchine.
Lavorano come si lavora. Si capiscono senza parlare.
Mangiano insieme e parlano delle loro ragazze che frequentano il liceo classico. E’ costoso mantenere a scuola la figlia, per il rumeno. Ma quando la vede davanti al dizionario di latino a fare le versioni, dimentica il gonfio e la rabbia del venerdì. Il grosso gli chiede del Danubio, fa domande sul Mar Nero e sul lavoro in mare. Per ascoltarlo, dimentica di mangiare. L’operaio racconta sempre meno dei viaggi in mare. E’ più lento nel ricordare il suo Paese.
Disperde le parole in lunghi silenzi.
Ogni ricordo è un bene prezioso. I beni preziosi sono personali.
Il grosso e il gonfio hanno acquistato due automobili della stessa cilindrata, di seconda mano ma costose e ancora nuove. Da quando ha parcheggiato la Mercedes in cortile, il grosso al venerdì diventa un guitto manipolato dal gonfio. Dalla macchina in poi qualcosa è cambiato. Il grosso ha cominciato con una fabbrica più piccola di questa. Lavorava pulito, senza il gonfio. Guadagnava meno, ma pagava i fornitori e aveva bilanci in pareggio. Aveva una segretaria gentile. Poi ha conosciuto il gonfio.
E il grosso ha cambiato versione di se stesso.
Al rumeno quel lavoro era capitato. Glielo aveva trovato un volontario della Caritas, attraverso l’agenzia per il lavoro. Esco di casa, guadagno un salario, non mi faccio mantenere da mia moglie. Aveva pensato. Era andata così. Soldi contro lavoro.
Poi è arrivato il gonfio. Il lavoro è diventato umiliazione.
L’operaio ha chiesto all’agenzia per il lavoro di andare via. Una delle valchirie commerciali dell’agenzia è andata in visita allo stabilimento del grosso, di venerdì. Ha discusso animatamente con il gonfio, ha alzato la voce con il grosso. Ha salutato l’operaio con molta gentilezza e lo ha rassicurato. Dopo di lei, ancora visite di altri fornitori. Tutti aggressivi e cupi. Poco dopo la valchiria presenta l’operaio ad una grande torneria, verso Milano. Produce ingranaggi. I lavoratori professionalmente più forti sono i rumeni.
Fanno massa, sono una squadra.
I rumeni non sono zingari per gli italiani, in questa fabbrica. In gruppo sono un branco organizzato di lupi da lavoro. Combattenti in assetto da guerra.
Il rumeno è la lingua che risuona di più tra lo stridore del tornio e il capitombolare regolare delle macchine a controllo numerico. I rumeni garantiscono una produzione folle. Ogni giorno tre o quattro ore di straordinario. Lavorano al sabato. L’azienda paga gli straordinari regolarmente ed è arrivata a riconoscere quindici mensilità. Gli operai italiani subiscono la competizione al rialzo imposta dai rumeni. Che sono professionali, efficienti. Tutti vengono dalle scuole tecniche di meccanica.
Sono orientati al risultato: soldi e il più possibile soldi. Per ritornare in Romania.
Il colloquio con l’ingegnere capo del personale non funziona. Lui è un meccanico navale. Può inventarsi un nuovo mestiere come montatore, come manutentore. Ma fare il tornitore è un’altra cosa. Gli tremano i polsi al pensiero di tolleranze basse, alla vista di un micrometro. Ha bisogno degli occhiali, sempre di più. Il tornio lo ha usato molto tempo fa. Non conosce così bene il controllo numerico.
Riappare in sogno ad occhi aperti, la sala macchine della nave. Durante il viaggio di ritorno.
Accanto ai motori della nave, si deve intervenire con precisione lenta e accurata. Dentro una bolla di silenzio. Ci si assume la responsabilità della diagnosi e si propone la cura: riparazione o manutenzione.
Solitario e solido il senso del lavoro. Lapidario il ritmo.
Il respiro è largo nella sala macchine. Essenziali le parole. Regolare il pensiero. Telegrafiche, le comunicazioni. Dagli abiti indossati ai movimenti: la vita sulla nave è sobria.
Fuori il silenzio del tempo, il ritmo del mare.
Il lavoro è diverso sulla nave. La squadra non è lineare: è una piramide gerarchica di autorità e competenze. Il vertice è indiscutibile. Detta la legge.
Dona solitudine, la nave. Anche quando è popolata come una città.
Si sconfina nell’extraterritorialità del pensiero.
La nave è stata la sua casa fino allo smantellamento di parte della flotta rumena. Fino a quel momento viaggiava. Era vivo e libero e aveva un guadagno da permettere alla famiglia vacanze, lussi culturali, studi per la figlia.
Un dramma, ritornare e rimanere sulla terraferma per un uomo plasmato nella cultura del lavoro. Un corpo per stare sulle navi a riparare i motori: muscoloso e magro funzionale ai movimenti felpati e decisi, in spazi ristretti.
La moglie in Italia a fare la badante, la figlia a scuola in Romania e lui senza lavoro. Vendi la casa di Galati e raggiungimi in Italia. La moglie a fare pressioni. Lui a sentirsi inutile. Possiamo ricominciare, qui.
La casa, la fretta, la vendita dei mobili e dei muri. Il viaggio in Italia. I primi giorni in giro per la città. Suoni diversi. Rumore, molto rumore. E niente lavoro. La famiglia che garantisce il lavoro alla moglie come badante è gentile ma fredda. Il giudizio balena nello sguardo alla vista di quell’uomo magro e muscoloso, elegante di modi, essenziale e silenzioso. Un uomo mantenuto dalla moglie, parcheggiato insieme alla figlia in una casa con un affitto molto costoso.
Senza il lavoro la vita è finita.
Fuori dalla nave è uno straniero. Come un extracomunitario senza documenti. Lui non passa la notte al dormitorio come loro, ma non è diverso. Non era così in Romania. Aveva un lavoro importante.
Gli occhiali, un libro, un panino. Lavoro subito.
Facile per il volontario della Caritas spiegare alle valchirie dell’agenzia che il lavoratore è pronto per l’officina. Il primo capannone del grosso era uno spazio sicuro, come la sala macchine della nave.
Il grosso e il gonfio si sono separati di venerdì, di fronte all’ufficiale giudiziario. Sono usciti dal capannone sigillato per il fallimento.
Il gonfio ha incontrato di nuovo l’operaio al supermercato. Lui era solo, il rumeno con la figlia e con la moglie. Ha cambiato corsia quando lo ha riconosciuto. Il gonfio era molto gonfio. E’ morto d’infarto dopo una settimana.
La morte estingue il reato.
Il grosso, all’ispettorato del lavoro, non ha alzato gli occhi dal pavimento.
L’operaio è ritornato a Galati, ad aiutare la madre.
Vive nella sua casa, sulla riva sinistra del Danubio. A un passo dalla frontiera con la Moldova.
Una fabbrica italiana ha aperto uno stabilimento a Galati. E’ diventato il responsabile della produzione.
Spesso torna in Italia per lavoro. Il suo ruolo è di raccordo tra i due stabilimenti. Il grosso lavora nello stabilimento italiano. Fa l’operaio.
Vasile è tornato. Essenziale, duro, giusto.
E’ così che scolpisce il destino, il sole del mare.