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Giorno del Ricordo: "Finalmente qualcuno ci ascolta" La testimonianza degli esuli In evidenza

di Ginevra Masciullo - A mancare non erano solo ricerche accurate che potessero fornire dati precisi, ma soprattutto la volontà di affrontare un tema scomodo all’alba dell’Italia post-guerra.

I drammatici fatti avvenuti sul confine orientale dell’Italia per molto tempo non sono apparsi nei libri di storia. A mancare non erano solo ricerche accurate che potessero fornire dati precisi, ma soprattutto la volontà di affrontare un tema scomodo all’alba dell’Italia post-guerra.

Alla fine del conflitto nel nostro Paese si viveva un clima di speranza e si avviava una rinascita, in questa atmosfera però non hanno trovato ascolto le voci di chi fuggiva dalla Venezia Giulia per salvarsi dalle persecuzioni verso gli italiani che avvenivano in quella zona. Furono diverse centinaia di migliaia le persone che dovettero lasciare alle loro spalle casa, lavoro e affetti per trovare rifugio dentro i confini nazionali e rincominciare da zero.

Questa mattina durante la deposizione della corona nella Piazzetta dei Martiri delle foibe abbiamo incontrato due donne e un uomo, che ci hanno raccontato il significato di questo giorno per chi ha vissuto questo dramma: “Per noi questa giornata ha un enorme valore -spiega Carmen Gherbaz con un po’ di commozione nella voce e negli occhi – la gioia ci riempie il cuore perché vediamo che la gente oggi è venuta anche da noi dopo tanti anni in cui siamo stati nascosti, siamo alla Spezia dal 1947 è bello vedere le autorità che ricordano, perché noi non possiamo dimenticare. Siamo rimasti in pochi, tanti ci hanno già lasciati e per noi è importante conservare la memoria, ogni anno mi commuovo, vivevamo tutti in queste palazzine, eravamo 56 famiglie con bambini, ricordiamo tante gioie e tanti dolori.”

Anche Valeria (detta Renata) Matiasich e Luciano Matiasich ricordano con una nota di tristezza l’esodo e la nuova partenza nella nostra città, i palazzi sopra la piazzetta sono stati la loro casa adottiva: “Abbiamo abitato per 8 anni in una caserma, poi siamo venuti qui, oggi siamo rimasti 5 testimoni di quanto accaduto e abbiamo già i bis nipoti, purtroppo neanche i nostri nipoti hanno potuto comprendere cosa ci è successo, perché ci hanno quasi obbligati a non parlarne -si rammarica Renata- all’inizio non ci siamo sentiti benvenuti. I ragazzi e le ragazze non ne sanno abbastanza, non abbiamo potuto raccontare, siamo diventati spezzini e ci siamo integrati e adattati, abbiamo iniziato a lavorare e ognuno ha fatto la sua vita. La nostra generazione non esiste più, speriamo che con questa giornata i giovani possano conservare il ricordo.”

Carmen, Renata e Luciano ci tengono molto a far scrivere correttamente i loro cognomi, perché in essi è racchiusa una storia che rischia di essere dimenticata. Il cognome Gherbaz è stato spesso italianizzato in Gherbassi e lo stesso è avvenuto dall’altro lato del confine dove i cognomi italiani sono stati corretti per suonare slavi. È un racconto di vite di persone, esistenze che hanno superato i confini e che hanno trovato violenza nelle zone di provenienza e sospetto nelle zone di arrivo. Fuggiaschi e guardati con dubbio per molti anni, oggi la loro volontà è quella di parlare. Sotto ad una coltre di silenzio sono state seppellite tante vicende e, come ogni morte e ogni situazione di disagio, anche i fatti delle foibe e l’esodo dalla Venezia Giulia meritano di trovare spazio nella narrazione della storia.

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