L’Ente Parco, in considerazione del personale di cui dispone - 5 dico 5 persone in tutto – di un bilancio che consente di coprire unicamente le spese correnti e della impossibilità giuridica d’intervenire in luogo dei Comuni, non può essere che un organismo di programmazione e di controllo dell’attività di terzi , Comuni o privati che siano.
Personalmente ritengo, invece, che dovrebbe poter intervenire, avendo il denaro e le deleghe necessarie, ove vi siano da affrontare problemi, come quello della manutenzione dell’alveo del Magra, che vanno trattati in un logica di area vasta. Ma purtroppo non è così.
Ciò premesso, nello svolgimento dei suoi compiti di programmazione, l’Ente Parco nel 2013, a fronte della conclamata necessità di prevenire il trasporto a valle di biomassa morta in alveo e di ridurre il rischio idraulico, ha commissionato uno studio approfondito, denominato “intervento pilota per la creazione di filiera bosco/legno/energia con impiego di biomasse recuperabili da manutenzione del fiume Magra tra Colombiera e Padivarma”, con il quale s’indicava alle istituzioni competenti - Regione e Comuni - quali fossero gli interventi necessari per prevenire i fenomeni di accumulo di biomassa alla foce del fiume e come fosse possibile valorizzare tale biomassa anziché portarla a rifiuto.
Lo scopo del Parco era sensibilizzare tali Enti sulla necessità e possibilità d’intraprendere politiche di prevenzione anziché dover affrontare, ogni anno, i medesimi “imprevisti”.
Sta di fatto che quello studio è stato ignorato da chi doveva e poteva intervenire.
L’Ente Parco ha fatto quello che poteva. Altri no.
E non è consentendo ai Comuni, ognun per se, di “spalare” l’alveo che si riduce il rischio idraulico. Anzi operando al di fuori di un processo di manutenzione programmata che comprenda l’intero corso del fiume – tanto per intenderci, anche la parte toscana del bacino idrografico – vi è l’eventualità di accrescere, con il taglio della vegetazione, la velocità della corrente e quindi di accentuare gli eventi di piena ed il conseguente rischio di esondazioni.
Voglio citare un passo dal nostro studio.
“La scelta degli interventi da effettuarsi sulla vegetazione fluviale rappresenta una tematica spesso critica nell'ambito della gestione dei corsi d'acqua e del rischio idraulico. L'impostazione culturale spesso dominante, sia nella popolazione che in molti soggetti decisori, compresi “addetti ai lavori”, è la necessità di contenere la presenza di vegetazione in alveo e sulle sponde, secondo un approccio tendente alla velocizzazione delle acque, e quindi alla canalizzazione del corso d'acqua e all'agevolazione degli usi antropici degli ambiti alluvionali. Negli ultimi anni, tuttavia, tale approccio ha mostrato di non essere sostenibile, non solo per gli impatti di tipo ambientale, socio-economico e paesaggistico, ma anche e soprattutto nei confronti della riduzione del rischio idraulico”
La strada, di conseguenza, non è trasferire risorse ai Comuni perché ciascuno di essi, presumibilmente con tempi e modalità diverse e al di fuori di un piano organico, operi nel suo tratto di fiume, ma consentire ad uno degli Enti sovracomunali esistenti – all’Ente Parco o all’Autorità di Bacino o ancora al Consorzio di bonifica e irrigazione del canale lunense - di attuare il nostro piano di manutenzione programmata nel rispetto dell’ecosistema.
Negli ultimi 10 anni Regione, Comuni e privati hanno speso più di un milione di euro all’anno per rimediare ai danni. Quel milione si potrebbe spendere assai più proficuamente in prevenzione, potendo oltretutto valorizzare la biomassa per riscaldare scuole o ospedali, in una prospettiva di quella economia circolare, utilizzando le cooperative di comunità locali,oggi molto di moda nella propaganda politica, ma poco di moda nelle scelte di governo del territorio
Pietro Tedeschi