L’articolo di Francesca Paci su “Il Secolo XIX” del 16 giugno ci fa capire che Paese è oggi l’Egitto, dopo il golpe del generale Al Sisi nel 2013: un regime militare, autoritario e repressivo. Amnesty International denuncia che, ogni giorno, spariscono due oppositori. Dal 2016 al 2019 ci sono stati almeno 2.400 condannati a morte. A Sara Hegazi, omosessuale, suicida nei giorni scorsi mentre era in esilio, la vita l’avevano già tolta tre anni fa, quando fu arrestata e torturata in un carcere egiziano.
A chi sostiene che bisogna avere buone relazioni con l’Egitto in quanto Paese alfiere della lotta al terrorismo, vanno ricordate le risoluzioni del Parlamento europeo, che denunciano che “sono etichettati come terroristi i dissidenti pacifici, gli attivisti per la democrazia e i difensori dei diritti umani”.
Il caso di Giulio Regeni non è quindi l’unico problema nei nostri rapporti con l’Egitto. E l’Italia non può far dipendere il suo atteggiamento solo da qualche-ovviamente auspicabile- progresso sul caso Regeni. La questione ha una molteplicità di aspetti e di implicazioni.
Certamente l’uccisione del giovane ricercatore e la successiva azione di depistaggio da parte del governo egiziano ci mettono davanti al fatto che è in gioco la nostra sovranità nazionale: la capacità dello Stato di tutelare l’incolumità dei suoi cittadini in un Paese straniero. L’oltraggio non è solo alla famiglia Regeni, è all’Italia.
Ma i principi in discussione sono anche altri. Coloro che sostengono che la scelta di vendere armi -molte armi- all’Egitto corrisponde ai nostri interessi, dimenticano che il compito della politica è, nella misura del possibile, quello di conciliare interessi e principi, senza mai dimenticare che, in ultima istanza, sono i principi a dover prevalere. In questo caso è evidente che dobbiamo mettere in secondo piano gli interessi.
Non solo perché non esiste Stato al mondo che venda armamenti a un regime che è coinvolto nell’omicidio di un suo cittadino; ma anche perché una legge dello Stato, la n. 185 del 1990, stabilisce che le esportazioni di armamenti “devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”. Dov’è questa conformità, nel caso dell’Egitto? Consideriamo il ruolo che Il Cairo sta svolgendo nel Mediterraneo: sostiene direttamente l’offensiva militare in Libia del generale Haftar fornendo basi di supporto e materiali militari alle sue truppe, e pertanto contrasta apertamente le nostre politiche per un processo di pacificazione in Libia. L’errore più grande che oggi l’Italia potrebbe fare nel Mediterraneo è schierarsi con l’Egitto.
Di più: le esportazioni di armamenti sono vietate, recita la legge n. 185, “verso i Paesi in stato di conflitto armato” -e l’Egitto non solo è coinvolto nel conflitto in Libia ma anche in quello in Yemen senza alcun mandato internazionale - e “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa”. Il che è stato più volte accertato.
In sostanza: una cosa sono le relazioni commerciali tra Paesi, una cosa sono le esportazioni di armamenti. Ci sono molti Paesi con cui abbiamo relazioni commerciali ma a cui non vendiamo armi. L’Egitto dovrebbe essere tra questi.
Far prevalere i principi significa esercitare una pressione molto più forte per chiedere sia la verità su Giulio Regeni che la libertà per tutti i prigionieri politici incarcerati. Significa non vendere armi ai Paesi in guerra e che violano i diritti umani. Significa dar vita a un grande progetto dell’Italia e dell’Europa per la pace nel Mediterraneo, per la ricostruzione civile, sociale ed economica della Libia, per la riconciliazione del popolo libico. Servono visione e strategia, non la ricerca del business immediato.
Giorgio Pagano
cooperante, Presidente delle associazioni Mediterraneo e Funzionari senza Frontiere