Martedì 7 luglio alle 21.30 alla Ludoteca Civica della Spezia è in programma la prima proiezione nel Giardino della struttura. Per l'occasione sarà proiettato "Porco rosso" per la regia di Hayao Miyazaki (durata 94 min. - Giappone 1992). Italia, periodo tra le due guerre mondiali. Un misterioso pilota di aerei dalle sembianze di maiale, detto Porco Rosso, è il terrore dei pirati del Mare Adriatico, almeno finché questi non si affidano all'americano Curtis, avventuriero spavaldo che sfida Porco Rosso a duello. Quello che a prima vista potrebbe apparire come uno dei lavori più scanzonati del maestro dell'anime giapponese, come fosse girato per ingannare il tempo tra un'epopea e l'altra, è al contrario la perfetta cartina di tornasole per cogliere alcuni temi portanti della poetica di Miyazaki. Sotto le vesti del divertissement, infatti, ecco spuntare il lato più politico e libertario del regista nipponico, incarnato nell'anarchico escapismo di Porco Rosso, eroe senza tetto né legge, solitario come un ronin errante, che rifiuta ogni forma di omologazione. Su tutte quella fascista del regime che avanza, infestando la (sua) bella Italia ("meglio porco che fascista" è una delle frasi-cardine del film) e fagocitandone le diversità. La scelta di ambientare la vicenda tra le schermaglie aeree di piloti e pirati - entrambe creature estraniate dalla società e che rispondono a un codice d'onore a parte - la dice lunga su come Miyazaki scelga il ruolo di osservatore distaccato ma non imbelle di fronte a una realtà che non gli appartiene. "Sono sempre i buoni a morire", va ripetendo l'eroe dai tratti suini, ribadendo il sostanziale pessimismo nei confronti di una società che sceglie di prostituire la sua bellezza e di asservirsi al potere. L'Italia ideale su cui Porco Rosso ama svolazzare, quella assolata dell'hotel Adriano, delle dame eleganti e delle folle festanti, dopotutto è anche il paese capace di dar vita al mostro del totalitarismo, diffondendo il germe che inquinerà irreparabilmente il XX secolo. Che si tratti di Italia degli anni '20 o di un Giappone contaminato dal fantasy, Miyazaki riesce al solito a veicolare il suo messaggio senza appesantire la narrazione: ritorna il consueto topos della ragazza che sceglie il lavoro, senza sottrarsi alla fatica, per emanciparsi socialmente e contribuire con qualcosa di concreto alla causa in cui crede. Pur scegliendo un approccio visivamente quasi dimesso, senza ricorrere alle immagini flamboyant di una Nausicaa della valle del vento o de La città incantata, quella che Miyazaki ci regala è una pagina tutt'altro che minore del grande libro delle sue visioni, in grado di stupire al pari di quanto sanno insegnare.
Mercoledì 8 luglio alle 21.30 nuova proiezione della rassegna "Cinema in piazza" in collaborazione con la Ludoteca Civica. Il programma prevede il film "Inkheart - La leggenda di cuore d'inchiostro" per la regia di Iain Softley (durata 106 min. - USA, Germania, Gran Bretagna 2008). Quando Mortimer Folchart detto Mo, esperto rilegatore di libri malandati, trova un volume di "Inkheart" in una vecchia libreria di provincia, non crede ai propri occhi. Sono dieci anni che cerca quel libro, da quando sua figlia Meggie ne aveva tre; da quando, l'ultima notte in un cui lo ha letto ad alta voce, sua moglie Resa è scomparsa all'interno del mondo fantastico di Inkheart, alla corte medievale del malvagio Capricorn. Pochi lo sanno, ma Mo è una lingua di fata: con la lettura può richiamare alla realtà i personaggi dei romanzi, ma rimandarli indietro può essere molto più complicato. Ora, con quella copia del libro in mano, Mo è deciso ha ritrovare Resa e, che lo voglia o meno, Meggie farà di tutto per aiutarlo. Il ponte tra cinema e letteratura esiste da sempre, ma oggi è ormai un'autostrada e la trasformazione porta con sé pregi e difetti. Se poi non si è un minimo avvezzi alla fuga di fantasia, tentanti dal brivido e permeabili al sentimento, come nell'insuperato La Storia Infinita, non restano che i difetti. È più avventuroso farsi strada su un ponticello di corda traballante o raggiungere la stessa meta su un'automobile, fermandosi solo per pagare il pedaggio al casello? Il problema di Inkheart è proprio qui: quando tutto è possibile - leggere un paragrafo del "Mago di Oz" e sollevare un tornado, inventare tre frasi poco ispirate e lasciare a loro il compito di (ri)scrivere il finale - resta ben poco di appassionante. Quando ci si spaccia per amanti dei libri ma, invece che liberare il desiderio, si passa il tempo a ribadirne la pericolosità, si mente ai libri e ai lettori; quando si mette in scena un superpotere ma non gli si dà modo di far danni ed esigere grandi responsabilità, si mente al cinema e agli spettatori. Là dove in Lemony Snicket la passione del giovane Klaus per i libri era strumento di soluzione dei problemi della quotidianità, in Inkheart la quotidianità è il sogno e i libri sono il problema. Sono belli solo se non letti ad alta voce, come belli e inutili ai fini della storia sono i personaggi che la popolano: il coccodrillo di "Peter Pan", l'unicorno, l'adolescente scappato da "Le Mille e una Notte" e la terribile Ombra, sorta di potteriano gigante dissennatore. Il romanzo di Cornelia Funke, primo di una trilogia, ipotizza l'esistenza di narratori in grado di gettare un incantesimo sul pubblico con la sola pronuncia della parole, malauguratamente, però, il film diretto da Iain Softley ha a disposizione tutti gli ingredienti ma non sa compiere l'incantesimo. Il cast ha dell'incredibile, il resto no.