Altrove. Non dovunque. Se ne va chi intuisce una vita migliore sotto un altro cielo. Le motivazioni sono personali e collegate alle condizioni socio-economiche di provenienza. E’ il comune denominatore dello spostamento per motivi di lavoro.
E’ l’innesco del motorino d’avviamento della migrazione economica. Che ha risvolti sociali, psicologici. E culturali.
Da dove si viene e dove si va.
La migrazione non cancella la provenienza.
Francesco La Rocca inverte la traiettoria dell’intervista: “E’ importante dire da dove vengo. Sono nato a Vico Equense ma ho vissuto a Torre Annunziata, provincia di Napoli. La mia storia di lavoro e di migrazione è fortemente intrecciata alla storia sociale e industriale del territorio dal quale sono partito negli anni Novanta.”
Cronologia alla mano e analisi socio-economica del distretto agro-alimentare di Torre Annunziata. L’intervistato dedica attenzione all’analisi di sfondo, come la chiamerebbe un sociologo. Descrive l’ambientazione, le dinamiche sociali, traccia la storia industriale: è la cornice entro la quale si srotola la sua storia di vita e di lavoro.
“Torre Annunziata, città che amo, negli anni Ottanta contava circa ottantacinquemila abitanti, un numero che oggi si è dimezzato. Era chiamata la Manchester del sud, perché dava lavoro a mezza Campania. Ho vissuto in un’epoca di disastri sociali e naturali. Il terremoto dell’Ottanta: evento che mi ha segnato profondamente all’età di dieci anni. Il gruppo che avevamo nel rione Deriver per me era ed è anche oggi una grande famiglia. Il rione Deriver era una sorta di succursale della Delta Sider di Bagnoli, costruito con i soldi del piano Marshall. Gli occhi green di oggi suggeriscono osservazioni e commenti molto critici. Per l’epoca il rione Deriver aveva caratteristiche molto innovative.
Chi aveva messo in piedi la fabbrica aveva pensato di costruire palazzine, scuole di infanzia ed elementari e un enorme centro sportivo che comprendeva campi da calcio e da tennis. Adesso è tutto in disuso ed eroso dal mare. Sul territorio erano presenti importanti industrie, quali: Italtubi, Dalmine, Scac, azienda di produzione di guardrail.”
Le fabbriche, le famiglie, il gruppo sociale di riferimento: Francesco La Rocca colloca nella analisi di sfondo la vita quotidiana e le relazioni: “Dagli anni del terremoto in poi il gruppo della mia generazione è ancora molto unito. Anche se oggi siamo sparsi ovunque. Oggi vivono al rione Deriver ancora duecento famiglie. Alcune arrivate in fasi successive.”
Prende respiro la narrazione dell’intervistato e dedica onore e memoria a chi ha prestato impegno civile al miglioramento delle condizioni di vita: “Negli anni Ottanta la situazione sociale era compromessa per la presenza e per il condizionamento della camorra. Voglio ricordare l’assassinio del giornalista Giancarlo Siani, nel 1985. Da Torre Annunziata, come giornalista si occupava soprattutto di cronaca nera e di camorra. Ho avuto la fortuna di incontrarlo e di conoscerlo perché andava nelle scuole a parlare con gli studenti. Ha denunciato con i suoi reportage una situazione fortemente degradata e lo hanno assassinato. Roberto Saviano lo cita spesso. E’ del 2009 il film “Fortapasc” diretto da Marco Risi.
Noi eravamo definiti “Fortapasc” come il titolo del film. Ma noi eravamo e siamo quelli dell’altra “Fortapasc”, quelli che volevano che Torre fosse altro.”
Torre Annunziata e il territorio circostante, oggi. “Oggi c’è tutta un’area trasformata nel più grande Mall del sud Italia. Un centro commerciale dalle enormi dimensioni sorge al confine tra Pompei e Torre Annunziata, sul mare. Cinque hotel e una ragnatela di luoghi commerciali costruiti in un luogo dove la viabilità era già intensa ed oggi lo è ancora di più. Una cattedrale nel deserto imposta al territorio, senza considerare i reali bisogni. Nonostante la vocazione storica e culturale dei luoghi. Nonostante Napoli stia cambiando positivamente e ci siano siti culturali ancora sottovalutati: Pompei, Oplontis, che è il vecchio nome di Torre Annunziata.”
Dalle fossette di lancio allo scatto verso un altro Paese. Quale è stata la preparazione emotiva? “Mio padre era titolare di un’officina meccanica di alta precisione. Lavorava per la Ciba-Geigy, oggi Novartis. A fondare l’officina è stato mio nonno. Successivamente ha dato vita a un pastificio, uno dei cento del territorio, del quale si è occupato poi un mio zio. Da ragazzo trafficavo, possiamo dire così, soprattutto nell’officina di mio padre. Gran parte delle competenze per il settore metalmeccanico le ho sviluppate nei pomeriggi presso l’officina, dopo le mattine di scuola all’Istituto tecnico. Mi piaceva lavorare al tornio, alla fresa e occuparmi della saldatura. Mi piaceva mettere su carta i progetti e realizzarli. Per motivi familiari ho smesso di frequentare la scuola al quarto anno delle medie superiori. Mi piace ricordare una insegnante di lettere che volle incontrare mia madre per dirle che assolutamente dovevo proseguire gli studi. Le condizioni familiari e personali avevano condizionato la mia scelta di interrompere gli studi. Quando mi sono ripreso ho cominciato a lavorare. Avevo diciassette anni.”
Migrazione interna.
La prima migrazione è da sud a nord, nel 1990. “Il servizio militare l’ho fatto a Modena, nell’ottovo gruppo di artiglieria pesante e campale, Apecam. Dove ho conosciuto tre degli amici che reputo fratelli. Uno di questi abita a Toccalmatto, nel Comune di Fontanellato. Ed è stato il contatto che ha permesso la mia seconda migrazione.”
Alla fine del servizio militare, Francesco La Rocca si mette alla ricerca di un’occupazione: si candida a concorsi pubblici e si presenta a selezioni di personale.
“Ma c’era una depressione incredibile. Per questo motivo dopo un anno o due di ricerche vane ho contattato mio zio che se ne era andato in Spagna. Dopo Chernobyl, la produzione casearia di mio zio si era fermata per cause di forza maggiore. Aveva deciso allora di trasferirsi a Ibiza con un amico, che aveva un ristorante. Poi, hanno avuto molto coraggio e in un locale molto piccolo hanno cominciato a produrre mozzarella e a vendere a ristoranti del posto. Quindi mio zio si è spostato a Maiorca. Dove hanno aperto una piccola azienda.” Da lontano il nipote aveva seguito le azioni imprenditoriali dello zio. “Dopo l’ennesima porta chiusa ho chiamato mio zio. Non volevo andare al nord. Era un cliché, allora, il trasferimento dal sud al nord. E io sono molto legato al mare.”
Ad attrarre il lavoratore migrante Francesco La Rocca è il mare e la piccola azienda nella quale lo zio è socio senza portafoglio si trova proprio in una località di mare. “Io sono molto legato al mare.” Attrazione condizionata dalla genetica? Sorride e ammicca, l’intervistato. “Il mio attuale medico, dopo alcune visite specialistiche ed esami, ha addirittura parlato di carenza di iodio. Forse è davvero attrazione genetica!”
Migrazione di mare.
Il mare di Maiorca parla spagnolo e l’azienda lattiero-casearia richiedeva competenza che il lavoratore specializzato in ambito metalmeccanico non possiede. “Sapevo di non potere fare il manutentore degli impianti meccanici per tutto il tempo di lavoro. Potevo occuparmene al bisogno, ma la produzione richiedeva altre competenze. All’azienda Quesera Vesubio ho imparato il lavoro.”
Il gruppo di lavoro era italo-ispanico. Come è andata? “Eravamo in cinque. Due italiani e tre spagnoli. Ottima relazione con il gruppo di spagnoli. Ci vedevamo anche fuori dal lavoro. Ho sempre avuto buoni rapporti con i colleghi. Imparare e parlare la lingua era importante. In poco tempo sono diventato autonomo, l’ho imparata. Credo di avere una buona predisposizione alle lingue straniere. Ho cominciato a seguire telegiornali in spagnolo e a leggere giornali. La vita quotidiana e la frequentazione con spagnoli ha compiuto l’opera. Seguo e leggo anche adesso quotidiani spagnoli.”
La vita a Maiorca? Come è andata? “Maiorca vive soprattutto di turismo. Mi ha raggiunto dopo qualche mese Annamaria Caso, la ragazza che è diventata mia moglie. Rompendo anche le regole sociali di allora e della nostra terra di provenienza: eravamo due ragazzi conviventi senza il vincolo del matrimonio. Abbiamo vissuto da spagnoli con gli spagnoli. Nel frattempo anche la mia compagna aveva cominciato a lavorare come sarta. Nel Novanta ci relazionavamo commercialmente soprattutto con italiani, titolari di ristoranti. I migranti eravamo noi, soprattutto siciliani, napoletani, marchigiani e milanesi. Dal 1993 al 1998 subimos como espuma de cerveza. In italiano significa: siamo andati su come la schiuma della birra. Tutto andava bene. A Maiorca non c’era tanta manodopera non solo per la ristorazione ma anche per altri settori. C’è una comunità molto grande di andalusi che si occupava soprattutto di edilizia.”
Fino al ritorno in Italia per la celebrazione del matrimonio e al rientro della coppia in terra spagnola.
“Ce ne siamo andati quando era in corso qualche tafferuglio fra i soci ma nulla lasciava presagire un problema. L’azienda invece ha fallito. Chi ha i soldi ne esce sempre bene e chi fa l’operaio ne esce con le ossa rotte. Noi avevamo un permesso collegato al lavoro. Quindi siamo tornati in Italia. Nonostante avessimo trovato la nostra dimensione progettuale e di coppia in Spagna.”
Migrazione di ritorno.
Migranti di ritorno in Italia. “A Torre Annunziata non era possibile trovare lavoro. Ho cominciato a salire fino a Fermo, nelle Marche. Quando il mio amico commilitone Luigi mi ha telefonato per dirmi che volentieri sarebbe venuto a trovarmi in Spagna. Ma io me ne ero andato. Luigi mi ha suggerito di non tornare al sud ma di proseguire verso Parma. Mi avrebbe aiutato a trovare lavoro. Ospite a casa sua, accolto come una persona di famiglia, grazie al suo aiuto ho trovato un lavoro prima presso la cooperativa Il Colle, poi presso l’Ivri. Fino alla Sma Serbatori di San Secondo, dove lavoro oggi.”
E dove il gruppo di operai è composito: italiani e persone provenienti da Paesi extracomunitari, a volte con culture del lavoro differenti. Come è la convivenza? “Io vengo da un posto dove siamo tutto un caffè sospeso. Ho vissuto in un grande condominio dove tutte le porte erano aperte. Vengo dalla Spagna dove ci si ritrova per las tapas. Ti siedi lì con le altre persone e ti racconti. E’ anche per questo che ho imparato lo spagnolo in due settimane. Negli anni 2005-2008, prima della crisi mondiale causata dal crac Lehman Brothers, le agenzie per il lavoro presentavano a ciclo continuo lavoratori provenienti da Paesi africani. I candidati dichiaravano di sapere saldare. E forse avevano saldato veramente nel loro Paese oppure nei Paesi di transito. Ma in modo diverso rispetto agli standard italiani. Ho insegnato a tutti. Ho anche accompagnato uno di loro all’ufficio personale per confermare l’impegno del lavoratore e per dire che sarebbe stato in grado di sostituirmi in caso di necessità. Aiutare i colleghi concretamente è importante. L’integrazione non la si fa solo in fabbrica. La vita fuori dal lavoro, la socializzazione con gli italiani è fondamentale. Al lavoro mi impegno a facilitare le relazioni con i colleghi stranieri e italiani.”
Una suggestione per capire il valore profondo dell’integrazione? “Il passaporto è il lavoro. E ‘ una delle chiavi della relazione tra le culture. Insieme alla curiosità intellettuale.”
Il lavoratore Francesco La Rocca è italiano d’origine, spagnolo d’adozione e migrante di ritorno, d’aspetto nord Europeo e dall’accento emiliano nonostante la provenienza. Quale l’appartenenza di Francesco La Rocca, migrante di ritorno? “Nonostante ci si debba sentire radicati dove si vive e lavora, le mie radici sono sempre più estese.” Torre Annunziata, Maiorca, Parma. E forse tutti i Paesi di provenienza dei colleghi della Sma Serbatoi, con i quali si è fermato ad ascoltare e a raccontarsi. Para las tapas internacionales.
Fotografia scattata da Virginia La Rocca.