Questo lunedì Piazza Mentana è stata sede del 72° presidio che in questa occasione ha raccontato la guerra in Palestina tramite le testimonianze della fotografa Roberta Micagli e Karim Hamarneh, presidente della associazione Liguria-Palestina. L’iniziativa organizzata insieme alla rete spezzina Pace e Disarmo, Cgil La Spezia, AssoPace Palestina e l’associazione culturale Liguria-Palestina ha toccato un tema di cui si parla troppo poco e spesso male, probabilmente a causa della sua complessità geopolitica mondiale, ma che oggi è stato affrontato in modo semplice e chiaro, occasione in cui si è ribadito il ruolo fondamentale che giocano le singole città all’interno di un vortice politico universale.
“Anche le città possono fare qualche cosa – ha spiegato Giorgio Pagano - nel 2005 La Spezia fece un protocollo d’intesa con la città israeliana di Haifa e la città palestinese di Jenin, in vista di un gemellaggio tra le tre città, il cui obiettivo politico era quello di proporre una soluzione duratura per la pace, la sicurezza umana e la giustizia, sia per la Palestina che per Israele. La pace si raggiunge così, facendo dialogare le persone, le associazioni della società civile, le città di Israele e Palestina. Prima di arrivare ai governi ci sono le persone, le città e i governi locali”.
“Una situazione quanto mai drammatica di cui non si intravede una via d’uscita – ha dichiarato Luca Comiti, segretario generale Cgil La Spezia – un tema troppe volte dimenticato quello di un territorio martoriato da una guerra che giorno per giorno si aggrava sempre di più. Nell’ultimo periodo si ha notizia dell’uccisione di tantissimi giovani che cercano di ricostruire quella resistenza armata necessaria per combattere la condizione di sopruso, certificata anche da Amnesty International – continua - Stasera chiediamo un contributo per porre al centro un tema che viene dimenticato, che va affrontato anche con il dialogo tra popoli e associazioni”.
Quello della Palestina non è soltanto un conflitto, ma un piano di pulizia etnica studiato a tavolino e messo in atto dallo stato sionista di Israele, ormai certificato da numerosi studi e testimonianze. Era il 10 marzo 1948 quando alla Casa Rossa dell’antica Tel Aviv, un gruppo di undici uomini, dirigenti sionisti veterani insieme a giovani ufficiali militari diedero il tocco finale al piano di Pulizia Etnica della Palestina.
“Per gli ebrei era l’Olocausto, per i palestinesi è la Nakba - (termine che fu utilizzato dai sionisti per controbilanciare il peso morale dell’Olocausto ebraico, la Shoah) ha spiegato la fotografa Roberta Micagli, che dal 2016 al 2019 ha vissuto a periodi intermittenti insieme ad una famiglia palestinese all’interno di un campo profughi sito in Libano – Sono qui per portare la voce degli invisibili palestinesi dimenticati dai media e dal mondo intero, affinché Israele possa continuare a perpetuare il regime di apartheid”.
Quella sera stessa alle unità sul campo vennero trasmessi gli ordini di effettuare i preparativi per la sistematica espulsione dei palestinesi da vaste aree del territorio. Gli ordini erano accompagnati da una descrizione specifica dei metodi da utilizzare per l’espulsione dei palestinesi, una serie di intimidazioni, incendi di case, campi e proprietà, demolizioni e collocazioni di mine tra le macerie per impedire agli abitanti di farvi ritorno.
Il Piano Dalet, in ebraico, era il nome della missione militare che avrebbe determinato il destino dei palestinesi ma che venne raccontata al mondo per decenni come un abbandono volontario delle terre da parte dei palestinesi. Da quel giorno il destino della Palestina cambiò per sempre, ristabilendo un ordine mondiale definito politicamente, a cui si tentò di porre rimedio con gli accordi di Oslo di trent’anni fa, che avrebbero dovuto avviare un processo di pace tra i due paesi, una situazione ad oggi ancora bloccata.
Karim Hamarneh, presidente della associazione Liguria-Palestina, nato a Betlemme, ha conosciuto bene ciò di cui si è parlato oggi, “la nostra associazione culturale cerca di far conoscere la nostra cultura e tradizioni, il nostro modo di vivere al mondo perché per noi la cultura è una forma di resistenza, a cui possiamo aggrapparci. Fuori dal nostro paese, il nostro popolo non ha a disposizione altro”. Ricordando la situazione dei prigioni palestinesi, ragazzi e ragazze non ancora maggiorenni, bambini e bambine che vengono deportati e che subiscono ogni giorno svariate forme di violenze senza motivo. “La Palestina non è un popolo per la violenza, ma un popolo sottoposto alla violenza coloniale che tenta di rispondere”.