“Molti nostri connazionali vennero seviziati e uccisi, i loro corpi vennero gettati nelle foibe”, così il presidente del consiglio comunale spezzino Giulio Guerri nell’aprire la seduta straordinaria di oggi per ricordare le vittime delle foibe e l’esodo degli istriani, dalmati e fiumani nel secondo dopoguerra. “Sulla tragedia della comunità giuliano dalmata era caduta la scure della reticenza, dell’omissione, dell’oblio".
“Per troppo tempo questa tragedia è stata considerata una nota a piè pagina della storia – ha commentato il vice sindaco della Spezia Genziana Giacomelli - Sono passati solo 17 anni dal 2004 quando il Parlamento italiano stabilì che il 10 febbraio fosse dedicato alla diffusione della conoscenza di quei tragici eventi. Dal nostro porto è salpata Exodus e la nostra terra ha aperto le braccia ai 4000 mila esuli arrivati attraverso il Mar Adriatico, prima nel campo di raccolta nella caserma Ugo Botti di Ruffino, poi nei condomini del villaggio di Mazzetta e di Rebocco. Da subito ci fu un’accoglienza formale, ma ci volle tempo perché diventasse vera accoglienza”.
L’Ing Andrea Manco, in rappresentanza dell’associazione nazionale Venezia, Giulia, Dalmazia, ha presentato Piero Tarticchio: nato a Gallesano esule istriano giornalista e scrittore che ha composto diversi romanzi per preservare la memoria sul tema dell’esodo e delle foibe, è stato direttore dell’Arena di Pola e presidente del Centro di Cultura Giuliano-Dalmata. Costretto all’esodo nel 1947 a causa dei partigiani comunisti del maresciallo Tito che uccisero e gettarono nelle foibe 7 suoi parenti.
“La mia non vuole essere una lezione di storia, ma una testimonianza di quello che ho visto e udito nel 1945 quando portarono via mio padre e di lui non sapemmo più nulla – così è iniziata la preziosa testimonianza di Piero Tarticchio, dopo aver ricordato l’amico Vittorio Sopracase, il cui padre venne prelevato la stessa notte di quello di Tarticchio - Come sapete il 10 febbraio di 76 anni fa a Parigi veniva firmato il trattato di pace, con quella firma noi perdevamo buona parte delle terre del nord est italico (Istria, Fiume e Dalmazia). Tito aveva occupato quelle terre alla fine della guerra e mise in atto un programma di vessazioni con lo scopo di balcanizzare quella terra e far fuggire gli italiani: nazionalizzò tutte le proprietà pubbliche e private, vennero chiuse le chiese, lo stato si sostituiva a Dio. Nel 1943 avevo perduto il mio primo familiare, un prete che venne prelevato, torturato, evirato e gettato vivo nella cava di bauxite di Lindaro, una foiba nel centro dell’Istria”.
“Nella notte tra il 4 e il 5 maggio udimmo dei colpi alla porta ed andò ad aprire mia nonna. 4 soldati partigiani slavo-comunisti di Tito con il mitra spianato si presentarono alla porta e con loro un funzionario dell’Ozna. Salirono al secondo piano da mio padre, gli legarono i polsi con del fil di ferro e con il calcio del mitra lo spinsero verso la porta. Fu portato nelle carceri di Pisino nel Castello dei Montecuccoli. Mia madre andava a trovarlo tutti i giorni e un giorno, verso la fine di maggio, andai anche io a salutare mio padre ma nessuno si affacciò alla finestra dove si affacciavano i prigionieri. Un anziano che passava di lì ci disse che non c’era più nessuno, nella notte c’era stato un movimento di camion che hanno preso la strada che porta a Fiume. Gli 860 prigionieri presenti nella prigione del Castello di Montecuccoli non arrivarono mai a Fiume ma finirono nelle foibe vicine alla citta di Rovigno".
"Dopo una settimana mia madre scoprì che in una località chiamato Karlovac vi erano degli uffici dove venivano smistati i prigionieri di guerra, andò lì e venne a sapere da un funzionario che suo marito sarebbe ritornato a casa da lì a pochi mesi. Mia madre così ritornò a Gallesano. Un giorno, mentre stavamo andando da una comare, fummo fermati da un funzionario del comitato popolare di liberazione che disse a mia madre che era stata inserita nel registro dall’Ozna, la polizia di Tito, e che probabilmente sarebbero venuti a prenderla per portarla in un campo di concentramento e avrebbero internato me in un collegio di rieducazione comunista nel nord della Slovenia”.
“Decidemmo di partire quella stessa notte, attraverso la campagna, per Pola che era stata occupata dagli alleati che avevano istituito il governo militare alleato (GMA), riuscimmo ad arrivare sani e salvi – ha proseguito Piero Tarticchio - Pola era in fermento e la gente manifestava la propria italianità con le bandiere, invocando il diritto di rimanere nella loro città. Come luogo per una di queste manifestazioni era stato scelto un club nautico sito nel porto di Pola, in quel club, accatastate sulla riva, c’erano 28 ordigni contenenti 9 tonnellate di tritolo, ordigni esplosivi che erano stati passati al vaglio di 3 squadre di artificieri che avevano tolto i detonatori".
"Il 18 agosto 1946 la gente era andata al mare, era domenica, e in occasione della manifestazione di italianità erano state organizzate gare di nuoto e vela. Alle 14:15 circa quelle mine esplosero: 110 polesani, soprattutto giovani, morirono. Il mare era rosso di sangue e i gabbiani banchettavano con i resti dilaniati dei corpi che galleggiavano sull’acqua. Si venne a sapere che la mano feroce che aveva armato quelle mine era una mano slava, il messaggio che voleva mandare Tito era chiaro e inequivocabile, “Italiani dovete andarvene”.
“Da Pola parti il 98% della popolazione che andò esule in Italia ma non sempre fummo accettati dagli italiani che non comprendevano che noi avevamo, con le nostre terre, pagato il debito della sconfitta dell’Italia. Al nostro arrivo fummo tacciai di essere fascisti, “Il vostro posto è nelle foibe”, ci dicevano. Abbiamo aspettato 57 lunghi anni affinché l’Italia riconoscesse i martiri delle foibe e l’esodo di 350mila italiani dalla Venezia Giulia, Fiume e Dalmazia”.
Un consiglio comunale, quello di questa mattina, che è stato inframezzato dalle esibizioni degli studenti dell’Istituto Cardarelli e dagli elaborati grafici e filmati realizzati dagli studenti dell’Istituto Einaudi Chiodi e Da Passano.