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Il sindaco che verrà: domande a Giorgio Pagano In evidenza

Un sindaco del recente passato, una visione distaccata dai giochi politici, un solido amore per questa città e un parere sulla figura del primo cittadino alla vigilia delle amministrative; abbiamo intervistato Giorgio Pagano a proposito dell’”essere sindaco” di una città non facile in tempi difficili.

Caro Giorgio Pagano, lei è stato sindaco del Comune della Spezia per due mandati, dal 1997 al 2007.
Lei è considerato da più parti un conoscitore della politica non solo locale ed ultimamente, da scrittore di successo, ha avuto modo di porre all’attenzione dei lettori anche la sua esperienza di storico e di conoscitore di dinamiche globali.


Siamo alla vigilia di una tornata elettorale che vede presentarsi ben 12 candidati alla carica di sindaco e ben 26 liste collegate. Un centro sinistra frammentato, un centro destra più coeso e l’incognita del M5S sono ciò che più colpisce.


Viste le premesse programmatiche che offrono, per ora, pochi spunti di differenza, riterremmo interessante per i nostri lettori, la definizione da parte sua, di un’ipotetica ideale figura di sindaco adatto ad una città particolare come La Spezia.


1) Quale secondo lei la figura ideale del candidato sindaco del Comune della Spezia?


"La città ha bisogno di un sindaco che riscopra la democrazia della polis e faccia sentire i cittadini “partecipi del sentimento di una grande impresa comune”. E’ un termine che ho sempre usato e che è più attuale che mai. La democrazia rappresentativa sta attraversando una drammatica crisi di fiducia, il distacco tra governanti e governati non è mai stato così grande. L’unica risposta possibile consiste nella ricerca di scelte condivise attraverso processi che coinvolgano in modo incisivo e influente i cittadini. La tradizionale partecipazione superficiale che mira solo a informare e a consultare non basta più, bisogna restituire il potere di co-decidere ai cittadini. Le buone decisioni si possono prendere solo con la partecipazione. Le città si governano con i patti e le alleanze, con la composizione condivisa di punti di vista e interessi diversi. Che è bene che emergano: il conflitto è il sale della democrazia. Ma poi serve la composizione condivisa, che è frutto della partecipazione".


2) Quindi la partecipazione serve a rendere la città più unita nelle grandi scelte e più capace di realizzarle?


"Certamente, è così. Il problema di Spezia è la mancanza di un centro ordinatore. Ci sono dei sottosistemi, ma non un sistema unitario e coordinato. Questa pluralità non è per se stessa una ragione di debolezza, può essere al contrario una risorsa, ma alla condizione che la politica faccia sistema, tenga cioè uniti i diversi soggetti in un lavoro comune di progettazione sociale, facendoli uscire dalla parzialità. Si chiami Piano strategico, come facemmo a cavallo del millennio, o in altro modo: ma è questo il compito della politica. E del sindaco in primo luogo. La parola sindaco viene dal greco, significa “colui che tiene insieme con giustizia”. Deve essere questa la sua capacità essenziale: altrimenti accade, come abbiamo visto in questi anni, che l’Autorità Portuale ha la “sua” politica del porto e del waterfront, che la Fondazione Carispezia ha la “sua” politica culturale”, e così via. Mentre, in assenza di un coinvolgimento, le associazioni e i comitati fanno battaglie sempre più contrappositive e i cittadini vanno sempre meno a votare. Abbiamo bisogno di un sindaco capace di dare a tutti la parola, e gli strumenti conoscitivi indispensabili per poter partecipare all’arena deliberativa. La democrazia è dialogo e compromesso, è ricorso alla parola anziché alla forza. L’aspetto più preoccupante dell’attuale fase politica a Spezia è che la democrazia si è inceppata: non c’è confronto di idee, non c’è dialogo, ma solo logiche di schieramento. La domanda che è circolata in tutti questi anni è stata solo questa: tu con chi stai? E non: tu cosa pensi?"


3) Quali gli ambiti destinatari di un intervento immediato?


"Servirebbe subito un segnale di “chiamata a raccolta” della città: un segnale di svolta radicale nel metodo di governo. Circa gli obbiettivi ne cito solo due. Il primo: un Piano per il lavoro ai giovani, soprattutto nell’”economia verde” e nel nuovo welfare. Il secondo: accogliere gli immigrati. Ma bisogna intendersi su che cosa significa accogliere: non vuol dire solo offrire tetto e cibo a coloro che cercano la propria salvezza nel nostro Paese, ma anche inserirli in una rete di rapporti sociali che li metta in condizione di rendersi autonomi, di lavorare, di andare a scuola, di imparare le nostre regole ma anche di trasmettere la loro cultura; e di organizzarsi per contribuire a creare le condizioni di un ritorno per chi lo desidera, e sono molti!, nel Paese da cui sono dovuti fuggire. Ciò va fatto in un quadro chiaro: nessuno deve poter pensare che a chi viene da lontano vengano dedicate più risorse e attenzioni rispetto a chi è sempre stato qui o è qui da tempo. Serve un piano che metta tutti in grado di accedere a una nuova cittadinanza, garantendo standard minimi per casa, lavoro, servizi: un nuovo welfare per l’eguaglianza, che dia giustizia a tutti i più deboli. Sono due grandi obbiettivi , connessi tra loro, su cui cominciare a lavorare da subito."


4) In questi anni il mondo ha subito notevoli cambiamenti, quali pensa che dovrebbero essere le caratteristiche di un sindaco oggi, rispetto a vent’anni fa quando toccò a lei?


"Un sindaco deve avere una “visione condivisa” del futuro della città. A cavallo del millennio uscimmo dalla “deindustrializzazione”, che ci aveva colpito come poche città italiane, con “l’economia della varietà”, cioè con uno sviluppo non più solo industriale ma con più vocazioni. Ancora l’industria: i cantieri della nautica da diporto al posto di quelli delle demolizioni navali; il porto compatibile con l’ambiente: il Piano Regolatore del Porto; la novità storica del turismo, dell’”economia della bellezza della città”; l’altra novità storica, quella del sapere e dell’Università. Oggi tutti i candidati a sindaco si richiamano alle scelte di allora. Ma la crisi economica e quella ambientale impongono, da tempo, una nuova svolta: perché il modo in cui le città sono cresciute nel mondo occidentale non è più sostenibile. Serve l’”economia verde”: un modello di sviluppo in cui qualcosa deve decrescere -consumo di suolo, progetti immobiliari invasivi, dissesto idrogeologico, espansione delle periferie, mobilità privata, centrali a carbone, vecchie specializzazioni produttive- e molto altro deve crescere: rigenerazione urbana, spazi pubblici, trasporto pubblico, energie pulite e rinnovabili, risparmio energetico, agricoltura, turismo sostenibile, nuove specializzazioni produttive… Anche la crisi sociale -la povertà e le diseguaglianze- impone una svolta: il Comune non può continuare a fare ciò che fa già ma deve attrezzarsi alla conoscenza dei nuovi bisogni sociali e costruire un nuovo welfare. Il nuovo sindaco deve aprire, su questi temi, un vero e grande confronto, strategico e partecipato. Perché una fase della vita della città si è chiusa, e bisogna discutere, con disponibilità al cambiamento e all’ascolto, di come aprire una fase nuova, da cui nasca un grande Piano per il lavoro ai giovani".


5) Cosa pensa di questa campagna elettorale? Trova differenze su questo tema rispetto a quando era lei a cercare consenso?


"La campagna elettorale è diversa non tanto perché ci sono i social quanto perché c’è meno partecipazione, meno fiducia. Erano molti di più i cittadini coinvolti, e soprattutto quelli che votavano. Bisogna ridare una speranza, il senso che i cittadini conteranno davvero. Ricordo che, prima della fine del mandato, realizzammo, sotto il Civico, l’Urban Center: doveva essere il luogo della discussione pubblica sulle trasformazioni della città, è diventato una sala come le altre. Bisognerebbe farne uno in ogni quartiere o gruppo di quartieri: spazi pubblici belli, accoglienti, di cultura e di svago, punti stabili di informazione e partecipazione su tutto ciò che accade nei quartieri… I cittadini non possono essere chiamati al voto ogni cinque anni e poi basta, la partecipazione deve diventare un’attività “ordinaria”. Altrimenti i cittadini si allontaneranno sempre più. E poi, rispetto ai miei anni, si è aggravata la crisi dei partiti. Il fenomeno c’era già allora, e mi portò, finito il mandato, a rinunciare a comode carriere e a scegliere strade di impegno civico e sociale fuori dai partiti. Ma oggi quel processo è arrivato a compimento: i partiti sono diventati macchine elettorali senza più alcuna funzione di rappresentanza sociale. Eppure non tutto è perduto: sotto la cenere il fuoco ha continuato ad ardere. Ci sono forme nuove di civismo municipale e di impegno sociale dei cittadini che fanno ben sperare. E che in futuro potranno, forse, rigenerare i vecchi partiti".


6) C’è un episodio riguardante gli ultimi dieci anni di politica locale che l’ha particolarmente colpita?


"Erano passate poche settimane dalla fine del mio mandato. Rientrai da un viaggio che mi aveva portato lontano e mi accorsi subito che una fase si era definitivamente chiusa. Non fu un semplice episodio, era proprio l’aria che si respirava. Nel mio decennio di governo ho fatto, come tutti, cose buone e meno buone. Quelle buone si devono alla partecipazione. Quelle meno buone alla mancata partecipazione: senza i cittadini ero condannato all’isolamento e alla sconfitta rispetto ai poteri che mi osteggiavano. La lezione mi sembrava chiara. Invece le cose andarono fin da subito in direzione opposta: cambiò l’aria, e la partecipazione fu messa in soffitta. Si mise in moto un processo che è arrivato fino ai nostri giorni. Se il centrosinistra non c’è più, l’origine è lì: non c’è più perché da tempo non è più la forza della partecipazione".

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