Folli, lucidi, non conformi, liberi, irriverenti e, in una parola, geniali. Antonio Rezza e Flavia Mastrella saranno, sabato 1 dicembre, sul palco del Teatro Civico con Fratto X, spettacolo inserito nell’ottava edizione della rassegna Fuori Luogo, unica data in Liguria e Toscana.
Il loro è un sodalizio che dura da oltre 30 anni: lui performer che non trova paragoni, lei artista capace di creare mondi nuovi; “Rezza è l’artista che fonde totalmente, in un solo corpo, le due distinzioni di attore e performer, distinzioni che grazie a lui perdono ogni barriera. Flavia Mastrella è l’artista che crea habitat e spazi scenici che sono forme d’arte che a sua volta Rezza abita e devasta con la sua strepitosa adesione”, per dirla con le parole scritte nelle motivazioni del premio Leone d’Oro che i due hanno conquistato alla Biennale di Venezia proposto dal direttore del Settore Teatro Antonio Latella.
Fuori Luogo è una rassegna molto cara agli spezzini e il lavoro degli ideatori e degli organizzatori è rivolto anche all’educare il pubblico. Voi che rapporto avete con il pubblico? Lo avete visto cambiare nel corso degli anni?
A.R. Per me questa è un’eresia. Dal mio punto di vista il pubblico (che in questo caso è anche sbagliato chiamare pubblico) non va educato. Ci vuole anzi diseducazione, proprio perché non è un bambino. Se le parole ancora contano, educare vuol dire incanalare e per fare questo sarebbe sufficiente eliminare i reading, allora sì, con questo sarei d’accordo.
Noi le persone che vengono a vederci (che secondo noi è una definizione più ampia e crediamo sia più rispettosa rispetto a pubblico o spettatori che accorciano la comprensione) le vediamo cambiate: molti sono invecchiati come noi, altre persone sono nate e sono diverse rispetto agli altri. Non sta a me dire se muta in meglio o in peggio, però credo che si stia perdendo la grazia: ad esempio, in teatro non c’è più il buio e che il fatto che sia stato abolito il nero secondo me è una forma di violenza rispetto all’arte, abolendo il linguaggio. Ci sono, certo, 300 persone rispettose, ma basta una persona con un telefono in mano e l’ambiente cambia tutto e nessuno te lo può dire, deve pensarci il proprietario del telefono, come dovrebbe pensarci a tavola o al cinema. Io detesto il telefono, perché credo amplifichi l’ipocrisia della dialettica.
F.M. Le persone che ci vengono a vedere sono la nostra forza. Noi abbiamo sempre basato tutto sulle persone. Non per le persone. Da sempre noi siamo molto seguiti.
Fino ad adesso tutte le generazioni, fino a questa ultima, di attuali 20enni o 16anni, capiscono ancora molto bene il nostro discorso. Noi abbiamo una platea che si rinnova.
Ai vostri spettacoli si ride e si ragiona. Come è possibile?
A.R. Non è che uno che ride sia deficiente, sembra che chi ride non ragioni. Chi ride e chi fa ridere merita lo stesso rispetto e credo che ridere sia l’unico rimedio all’autosopressione. Non bisogna poi avere la pretesa di capire, ognuno, come con le opere di Lynch, torna a casa con quello che ha colto. Poi credo che far piangere, muovendo su meccanismi evocativi, sia molto peggio e più facile. Noi non abbiamo mai pensato “voglio essere questo”: ognuno è quello che è nell’esatto momento in cui si manifesta. Noi siamo questo e siamo quello che siamo senza averlo scelto, ma avendo in mente quello che non vogliamo essere. Non vogliamo, ad esempio, essere nelle mani dello Stato perché crediamo che l’arte debba essere indipendente. Vogliamo essere un faro per quelli che verranno dopo di noi, come per noi o sono stati Antonin Artaud, Pasolini, Salvador Allende o i tanti che hanno rinunciato al denaro per un’idea. Vogliamo essere questo faro, e lo siamo già. Noi poi guadagniamo con quello che facciamo, altrimenti non potremmo essere indipendenti saremmo stati dei frustati asserviti all’idea del denaro. Lo Stato deve mantenere vivi gli spazi, pagare il personale, ma non può commissionare l’opera altrimenti si diventa autori di regime.
F.M. Abbiamo subito fatto un discorso basato sull’interazione di due arti differenti; da subito però abbiamo fatto il discorso veloce, velocizzando la questione dei concetti che rappresentano delle semplici realtà portate all’esasperazione, quindi anche divertenti, ma non prive di significato.
Negli anni avete invaso cinema, letteratura, teatro e tv. Ci sono forme d’arte che ancora non avete esplorato e che vorreste esplorare?
A.R. Forse la musica. Noi facciamo musica, nel senso di ritmo, nei nostri spettacoli, ma il rimpianto è non saper suonare davvero uno strumento. Potrei cantare, affiancato da musicisti, ma preferisco non farlo, perché sarebbe forse una scorciatoia, vista la visibilità che ho. Per quel che mi riguarda poi direi anche la pittura. Ecco, queste forme d’arte, che fanno a meno della parola, un po’ le rimpiango. Mi sarebbe piaciuto suonare bene uno strumento o dipingere bene. Certo, da una incapacità può nascere uno stile, ma per me sarebbe una delusione e un’usurpazione guadagnare da questo grazie a conoscenze o al fatto di essere quello che sei. A noi l’arte contemporanea piace tutta, in generale crediamo che il teatro sia ancora lo spazio più libero rispetto al cinema o alla televisione, in questo senso ci troviamo più a nostro agio.
F.M. Io penso che ci siano delle forme d’arte che ancora non abbiamo sperimentato, ma credo che usare i mezzi espressivi dipenda da te e da quello che vuoi rappresentare in quel momento e questo lo si decide di volta in volta.
Come ci si sente a fare qualcosa che nessun altro fa?
A.R. Finalmente una domanda obiettiva! Bhe, ci si sente bene. Uno deve accettare la propria unicità e la propria genialità. Questo non risolve i tuoi problemi, anzi li amplifica, perché devi essere sempre all’altezza di te stesso. Nonostante i sacrifici però è molto bello. Credo poi che il genio debba essere accompagnato dal rigore, altrimenti è facile perdersi, ma sappiamo che il genio da solo non ce la fa, così come il rigore da solo non ce la fa.
F.M. Io invece non me ne rendo conto, a me sembra normale quello che facciamo.
I primi 30 anni vi sono valsi il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. Cosa significa questo riconoscimento per voi?
A.R. Mi ha dato molta soddisfazione pensare a chi non ce l’ha fatta, a chi è invidioso. Questo mi dà tanta felicità: pensare a chi non ha vinto e non vincerà mai e ci ha messo i bastoni tra le ruote.
F.M. Questo riconoscimento dà un altro aspetto di noi stessi, anche a noi stessi. Io sono rimasta un po’ senza parole dopo il Leone, anche perché è un momento in cui il teatro soffre molto per una certa chiusura al teatro ufficiale, che, senza un mercato attivo, si reggeva sui fondi statali che poi sono stati tagliati. Noi e gli altri autori che hanno un mercato attivo siamo troppo pochi per far vivere i teatri.
Per il futuro e per i prossimi 30 anni che avete in mente?
A.R. Il catetere è previsto, speriamo sia d’oro anche quello. Per non incorrere in passi falsi prevediamo di rallentare un po’,soffermandoci sulla fase produttiva, che a noi piace molto. I prossimi 30 anni saranno dedicati al consolidamento di una filosofia.
F.M. Stiamo lavorando sullo spettacolo nuovo. Vogliamo fare qualcosa di diverso e di corale, ancora differente da Anelante... vedremo...
DETTAGLI EVENTO
di Flavia Mastrella Antonio Rezza con Antonio Rezza
e con Ivan Bellavista
(mai) scritto da Antonio Rezza habitat di Flavia Mastrella
assistente alla creazione Massimo Camilli
disegno luci Mattia Vigo
rielaborato da Daria Grispino
organizzazione generale Stefania Saltarelli
macchinista Andrea Zanarini
una produzione RezzaMastrella – Fondazione Teatro Piemonte Europa – TSI La Fabbrica dell’Attore Teatro Vascello
Il telecomandato gira in cerchio: la spensieratezza non ha luogo. Entra la ferraglia con la pelle appesa. E con la voce forte. Si gira e se ne va. Urla da lontano parole piene d’eco. Torna e se ne va. L’eco ammutolisce. Un taxi perduto è un lamento mancato, disperazione in cerchio con autocritica fasulla, vittimismo di regime, modestia tiranna e tirannia del consueto. Tutto ciò che si assomiglia va al potere. E Rocco e Rita a fare uno il verso non dell’altro ma dell’uno. A imitar se stessi c’è sempre da imparare. Ma chi imita se stesso è la cancrena nell’orecchio di chi ascolta. E marcisce l’ambizione. L’ansia non è uno stato d’animo ma un errore posturale. Forma e demenza non viaggiano mai sole. Tra le dune di un deserto, uccelli migratori volano felici sulla testa di due uomini sereni, lievemente turbati dall’arroganza del potente di turno, essere antropomorfo con le braccia malformate dal compromesso elettorale. La cultura è fatta a pezzi da chi ama sceneggiare. E poi la voce di uno fa parlare l’altro che muove la bocca per sentito dire. E si lamenta del suo poco parlare con la voce che lo fa parlare. Litiga con la voce che lo tiene al mondo. Applausi a chi ha ben poco da inchinare. Rarefatta dalla santità, Rita da Cascia oltraggia la provenienza, si ama non per sentimento ma per residenza: siamo sotto un fratto che uccide, si muore per eccessiva semplificazione. Il lottatore di sumo desume che dedurre è un eccesso. Sindoni a confronto con cartoni animati redentori. Guerrieri di ritorno da niente e specchi carnefici a mettere parole in bocca allo specchiato.
Compagnia Leone D’Oro alla Biennale di Venezia 2018
ORARIO
(Sabato) 20:45
LOCATION
Teatro Civico
Piazza Mentana, 1, 1912
Foto: Rezzamastrella.com; credits Giulio Mazzi