Abituato a romanzi e saggi storici (da ultimi “Caporetto” e “Ho sparato a Garibaldi” scritto con il compianto Arrigo Petacco) qui lo scrittore spezzino Marco Ferrari affronta una storia surreale e paradossale.
Se il cadavere appeso in piazzale Loreto non fosse quello di Mussolini?
Se a essere catturato dai partigiani fosse stato il suo sosia ufficiale mentre il vero duce prendeva il largo alla volta del Sud America come tanti gerarchi nazisti e fascisti? È da questa ipotesi che parte “Un tango per il duce”, che da quel famoso aprile 1945 fa iniziare la seconda vita di Benito Mussolini. Arrivato nel nuovo continente, l’ex dittatore si stabilisce in un paesino sperduto dell’entroterra argentino abitato da una piccola comunità di immigrati romagnoli. Raggiunti a stento da un’eco lontanissima della guerra, i residenti di Romagna Argentina lo accolgono con curiosità ma senza riverenze; tuttavia la forte personalità e la retorica tronfia del duce convincono presto un piccolo esercito di scapestrati a seguirlo in quella che dovrebbe essere la riconquista di Roma... ma il tutto si fermerà in una sperduta cittadina chiamata Generale Jacopetti dove il duce per sopravvivere sarà costretto a vendere piadine.
Con spunti dialettali e ironici, il mondo rovesciato della Patagonia mette a nudo i sogni di grandezza del duce costretto a muoversi tra galline e armadilli in un ambiente senza energia elettrica né linee telefoniche che stronca sul nascere i suoi propositi di rivincita. Il tutto si configura dunque come una grottesca rappresentazione di una improponibile svolta storica in cui il tango diventa una metafora dell’inconcludente desiderio di ritorno.