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Manuel Apice, il cantautore spezzino speleologo dell’anima In evidenza

Intervista di Luca Erba.

Manuel Apice, ventinove anni, cantautore spezzino. Ha pubblicato tre dischi ("Beltempo", 2019; "Attimi di sole", 2022; "Rumore Bianco", 2024), suonato su tanti palchi di club e festival nazionali e internazionali, vinto due premi dedicati alla musica d'autore (Premio Fabrizio De André, 2019; Premio Bindi, 2022) ed è sopravvissuto fin qui a sé stesso e alle sue domande senza risposta, che il più delle volte sono diventate canzoni.
Nel tempo libero fa altro che non sia scrivere o suonare, altrimenti non saprebbe cosa raccontare con la sua musica.
"Rumore Bianco" (La Clinica Dischi/Sony Music) è il suo terzo disco in studio, una narrazione corale di un sentimento condiviso, o almeno, così lui crede: dieci canzoni per raccontare il rumore di fondo che accompagna ogni momento del nostro incessante e disorientato progredire.


Apice, te lo devo chiedere.. cantautore si è o si fa?
Credo che cantautore si sia, nel senso che è difficile pensare che quella del cantautore possa essere una “ginnastica”, qualcosa che si può “fare” senza “essere”. Quella del cantautore è una condizione esistenziale, che se vogliamo porta già in sé intrinseca una notevole dose di solitudine: uno che se le scrive e se le canta perché certe parole, certi suoni, certe idee sono troppo personali per essere divise con altri. Poi è chiaro che anche al cantautore tocca fare una certa ginnastica, soprattutto in termini discografici. Però quella del cantautore non può essere solo ginnastica…

È da poco uscito il tuo terzo disco. “Rumore Bianco.” Un terzo atto della tua vita, quale fase rappresenta per te questa nuova uscita? Qual è il messaggio che vuoi trasmettere?
È un album che è nato negli ultimi due anni, da una ricerca di personale accettazione, di terapeutica analisi delle mie storture. Il più delle quali derivate dalla mia necessità di forzare il corso delle cose, di non rassegnarmi a questa impotenza con la quale i fatti della vita, alla fine, ti costringono a fare i conti. Il messaggio che sta alla base del disco è proprio che non ci debba essere sempre un messaggio da trasmettere, un codice da svelare o una morale da ricordare a qualcuno: la vita è caos, un ronzio che va preso così com’è, senza tentare di dover ricondurre ad un ordine ben preciso tutta la complessità di questa disordinata realtà. Non è nichilismo, anzi, è uno slancio fortemente vitalistico verso la possibilità di abbracciare tutto, il bene e il male, in un contesto in cui lo stesso confine tra bene e male sparisce, diventa superfluo. Tutto è umano, troppo umano, non potrebbe né potremmo essere diversamente. Accettarlo è un buon modo per rilassare le spalle, e tirare un sospiro di sollievo, di positiva ed esistenziale de-responsabilizzazione, per non fare la fine di Atlante, insomma…

Lucciole, Fabio.. Era una fase diversa?
Da un punto di vista espressivo, forse. Dal punto di vista contenutistico ti direi di no. Le domande (perché sono le domande a dettare il senso della ricerca, con le risposte al massimo ci possiamo lavare i denti per non far puzzare l’alito giusto qualche ora) erano le stesse.

Ieri si è concluso il Festival di Sanremo. Un appuntamento che da diversi anni è tornato ad essere di tendenza con ascolti record. Cosa ne pensi?
Che è un ottimo modo per far guadagnare un sacco di soldi a gente che di musica ne capisce ben poco grazie alla credulità di gente che di musica non capisce niente: un paradigma demagogico che è anche interessante specchio della nostra realtà nazionale, su tutti i livelli. Il vero problema non sono le canzoni di Sanremo, ma chi le sceglie e il giro di interessi editoriali che ne derivano. In Italia nessuno fa il lavoro per il quale ha studiato, a tutti i livelli: perché invece che un personaggio televisivo, un VIP, a dirigere il festival la Rai non mette un tecnico, uno che si è formato nelle nostre scuole d’arte magari, che ha studiato per fare il direttore artistico? La risposta è più ovvia della domanda, con tutte le sfaccettature etiche che ne derivano. Mi dispiace essere così tranchant, ma non basta mettere trenta persone con un microfono in mano su un palco milionario per dar vita ad una rassegna musicale, tra l’altro manifesto della musica italiana nel mondo… Se chiami gente dello spettacolo e della televisione a dirigere il festival della canzone italiana al massimo potremo parlare, appunto, di uno “spettacolo televisivo”, ma anche sotto questo punto di vista il risultato è di scarsissima qualità. Uno spettacolo noioso, pesante, ogni anno più trascinato e sempre meno trascinante, vivo solo in virtù della sua dimensione quasi rituale. Quindi, nel complesso mediocre sia come festival che come show. E però, ogni anno, siamo tutti preda di un’allucinazione collettiva che ci porta comunque a pagare il nostro dazio all’italianità. Ecco, forse è più una questione di mera appartenenza nazionale, che di vero interesse culturale: sono italiano, quindi devo guardare Sanremo o comunque parlarne, come stiamo facendo noi adesso. O almeno, penso che sia un meccanismo più o meno inconscio che scatta nella testa di molti, compresa la mia. E’ sempre stato così, sia chiaro: solo che una volta, tra i fiori e i lustrini, c’era qualcuno che considerava la canzone leggera una questione così seria da arrivare a pensare di togliersi la vita come atto di protesta nei confronti di un pubblico anchilosato e di una critica rabberciata. Qualcuno, insomma, ci credeva davvero all’importanza culturale della canzone… non sono mai state solo canzonette. Certo che finché la gente applaude, e così torniamo all’inizio della mia lunghissima risposta, va tutto bene…


Oggi la discografia in Italia come la si potrebbe definire?
Mah, non ti so rispondere. Forse l’aggettivo più giusto, e qui sarò breve perché in parte ne ho già parlato nella domanda di prima, “improvvisata”. Spocchiosamente e convintamente. Anche quando il livello del brand è alto.

Quando hai iniziato a scrivere testi? C’è un tempo preciso della vita o si può scrivere sempre?
Benedetto Croce diceva, e De André ne riprese il concetto in una meravigliosa intervista di una quarantina d’anni fa, che fino ai vent’anni chiunque scrive, dai vent’anni in poi rimangono a farlo i cretini e i poeti. Nonostante la mia pulsante tendenza alla megalomania non sono così sprovveduto da illudermi poeta, quindi ti dico che spero di rimanere cretino per tutta la vita perché scrivere mi fa star bene. E ho cominciato così presto che oramai credo di avere anche una certa esperienza: come cretino, intendo. Mi dispiacerebbe smettere.


Il tuo mestiere è una continua indagine e messa in discussione di quelle che crediamo essere le nostre certezze. Con il tuo ultimo disco oltre a fare musica ti candidi ufficialmente a fare lo speleologo dell’anima. Oggi la tua (la nostra) che generazione è? Siamo quelli nati negli anni novanta, quelli più volte definiti fragili. È così?
Sì, ma non credo che la fragilità sia un fatto generazionale. L’uomo è fragile, frangibile, consustanzialmente appeso alle sue insicurezze. È generazionale, invece, la capacità o incapacità di auto-inganno, a seconda della forza degli schemi convenzionali con i quali, di momento storico in momento storico, l’umanità cerca di darsi un senso. È tutto ciclico, naturalmente: ad esempio, la nostra è una generazione che sembra maggiormente fragile perché incapace di credere in determinati miti che la generazione del ‘68 ha contribuito a creare, pur nella sua presunta furia iconoclasta. Noi non abbiamo ucciso Dio, fammi utilizzare il giusto tono enfatico e filosofico, perché già uccidere Dio sarebbe stata un’operazione capace di definirci come generazione: noi siamo nati nell’assenza di Dio, non ne custodiamo nemmeno più il ricordo. Siamo atei per nascita, incapaci alla fede, questo credo sia il nostro tratto generazionale. E sia chiaro che, secondo me, questa assenza di Dio non è un tratto di libertà, è una mancanza che ci pesa, perché anche noi vorremmo avere qualcosa in cui credere, per non fare i conti con il nulla che a volte sentiamo abitarci. Poi è chiaro che anche la nostra generazione ha provato a crearsi i suoi dei minori… Nulla, in confronto a ciò che è stato ucciso durante il secolo scorso. Nel nuovo disco, c’è un brano che si intitola “Paura del buio” e parla proprio di questo ameno discorso. E poi ti volevo ringraziare per quel “speleologo” dell’anima, un cretino speleologo.

Spesso si è discusso della “tendenza” dei nuovi testi musicali ad assumere una “fisionomia depressiva”. La nostra è una generazione che nelle canzoni racconta la tristezza come tratto distintivo?
Vale la stessa risposta di prima. Non è la nostra generazione, è l’Uomo che è triste. O almeno, qualche filosofo, o poeta, o cretino, deve aver detto che la tristezza distingue l’uomo dall’animale che non ha consapevolezza della vanità della propria vita, della labilità di ogni cosa, del dolore di questo mondo. Quindi credo che la tristezza sia il tratto distintivo dell’Uomo, e in generale uno dei parametri necessari con i quali calibrare il concetto di umanità. La nostra generazione, questo sì, credo stia provando a trasformare in “moda” la tristezza perché è un modo come un’altra di esorcizzare la paura… Un buon esempio, questo, di dio minore di ultima generazione.



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