L'edificio venne progettato intorno al 1925, per la cura dei malati di una patologia al tempo molto diffusa, la tubercolosi: in ogni Provincia (Spezia lo era dal 1923) erano stati attivati i ''Consorzi Antitubercolari'' per affrontare la malattia.
Per questo venne scelto, come luogo di edificazione, una collina molto esposta al sole- e staccata dalla città- al fine di assicurare la massima esposizione ai benefici raggi per i malati di ''mal sottile'' (TBC) della prima metà del secolo scorso.
Durante la Seconda Guerra Mondiale ci fu un drammatico episodio di cronaca: nell'agosto del 1944 una pattuglia mista di soldati tedeschi e della RSI catturò tre dipendenti e li fucilò appena fuori dall'ospedale, per il sospetto di aver dato riparo ad alcuni partigiani feriti.
Ancora oggi si effettua una cerimonia in ricordo di quel tragico fatto di sangue, legato a un momento storico terribile; nei pressi della lapide che ricorda i fatti e che di recente è stata spostata, in previsione dell'abbattimento, dall'atrio d'ingresso al muro di sostegno della strada delle nuove gallerie, il cui svincolo si trova dove ancora resiste il vecchio perimetro esterno dello stabilimento.
Con il superamento della malattia tubercolare, il ''Felettino'' cambiò la sua destinazione d'uso e da ''sanatorio'' diventò un più tradizionale ospedale.
L'allora ''ente ospedale provinciale S. Andrea'' della Spezia lo acquistò nel 1969 dall'ormai smobilitato ''Consorzio Antitubercolare'', e tutto transitò nei ranghi dell'ospedale spezzino principale: ne venne insomma a far parte come una sorta di sua ''dependance'' (la foto mostra la documentazione di una assistita del Consorzio, nata nel 1908, di professione ''filandina'').
In quel periodo felice, tutto alla nostra memoria appare diverso, certamente più semplice: io entrai per la prima volta in questo luogo all'inizio degli Anni Ottanta, quando, assunto da pochissimo come Infermiere Professionale, lavorai in Geriatria, per una sola estate.
Da lì, arrivai poi all'ospedale ''centrale'', come si diceva all'epoca, e cominciai l'impegno nel settore delle cure intensive, dove sono rimasto....una vita.
Ma al Felettino naturalmente ritornai molte volte, perché come Tecnico di anestesia frequentavo le sale operatorie al tempo molto attive della urologia, diretta dal Prof Cerruti – chirurgo celebrato di scuola genovese, qui ancora oggi molto noto e ben ricordato- e dell'oculistica, con primario il Dr. Palmieri.
Uno dei principali indicatori della qualità di quella sanità è dato dalla provenienza dei pazienti che raggiungevano quei reparti specialistici. Operavamo tanti malati di molte Regioni italiane: ricordo una bimba siciliana con problemi visivi, che superò i suoi guai proprio lì, in quella struttura oggi distrutta.
Per qualche anno funzionò al Felettino anche una specie di ''seconda ostetricia'', e quindi non pochi sono oggi coloro che sono nati proprio lì, nel reparto che si trovava nei grandi spazi del presidio, caratterizzati da lunghi corridoi e camere pensate per otto, dieci posti letto...ed a un certo punto venne aperta la Psichiatria, al piano terra, subito dopo l'ingresso: fino a quel giorno i malati psichiatrici erano accolti in alcune stanze dedicate della Neurologia, che si trovava (e si trova ancora) al S. Andrea.
Personaggi che caratterizzarono questo luogo, nella seconda parte del XX secolo, furono certamente Don Albino, il sacerdote dell'ospedale che riforniva, a domanda, i degenti di sigarette e giornali, e l'elettricista Nilo, in grado di sistemare qualsiasi cosa elettrica purché lo si ascoltasse (e a lungo) in uno dei suoi interminabili comizi sui fatti di attualità politica del tempo.
La struttura era autonoma al massimo: sotto il piano terra vi era un intero sistema di sotterranei dove molti operai specializzati gestivano tutte le necessità del nosocomio, idrauliche ed elettriche, i problemi degli ascensori e delle strutture murarie.
Tutti erano dipendenti della allora USL 19 ligure, mentre oggi la quasi totalità di questi servizi indispensabili è da tempo, ed ovunque, appaltata.
Per qualche tempo ci fu una volpe, una sorta di mascotte, chiusa in una larga gabbia che si poteva vedere a metà collina, salendo a piedi dalla lunga scala di accesso: ma l'animale – non è noto perché e come si trovasse lì- era evidentemente sofferente, ed oggi una simile prigionia non sarebbe (per fortuna) accettata.
La allora ''Scuola regionale per Infermieri professionali'' era attiva negli spazi molto vasti del Felettino e lo fu per tutti gli Anni Settanta; la direttrice era la competente Lucia Mastrosanti, una delle prime direttrici qualificate di questi corsi nella nostra città.
E ci fu, legato a questa scuola, un episodio delittuoso ed incredibile: nella primavera del 1978 una giovane studentessa, di neppur 20 anni, venne uccisa davanti all'ingresso dell'ospedale, dove si trovava la portineria, da uno spasimante respinto che le scaricò sul viso un intero revolver.
La scena, orribile, si svolse di fronte a tutti i compagni di corso della sventurata ragazza, alla ripresa delle lezioni pomeridiane, dopo la pausa pranzo.
L'assassino, facilmente catturato, concluse i suoi giorni in carcere, malato.
Mentre si è progressivamente perduta la memoria di queste vicende, piccole e grandi, importanti e tragiche, oppure più lievi (come la abitudine di Don Albino di somministrare il sacramento della estrema unzione anche a chi non era proprio in fin di vita...''per mettermi avanti con le cose da fare'', amava ripetere il mitico sacerdote), sono oggi molto attuali le notizie di cronaca a noi più prossime.
Dalla scandalosa e costosa sopraelevazione del piano dedicato ai malati di AIDS e mai attivato (e che creò seri problemi alla stabilità della intera struttura), alla progressiva dismissione dell'ospedale stesso; alle polemiche sui tempi di abbattimento e soprattutto di realizzazione del nuovo ospedale che andrà – speriamo presto- a sostituire i due ospedali spezzini, dei quali oggi resta attivo il solo, e ultracentenario, Sant'Andrea, in piena città; inaugurato nel 1914.
Resta il pensiero, rispettoso, per tutti coloro che al Felettino hanno trascorso giornate di degenza (lunghissime nel caso dei primi ospiti, i malati di TBC, sottoposti a lenti e costanti procedimenti terapeutici e, allo stesso tempo, costretti all'isolamento dal resto della popolazione), per i percorsi di sofferenza, per le famiglie che qui hanno visto persone care chiudere la loro vita; e per tutti quelli, e non sono stati pochi, che nella struttura oggi abbattuta hanno lavorato con passione e correttezza.