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Serena Banzato, la sua storia di rinascita come atleta paralimpica in un bellissimo libro In evidenza

di Anna Mori - Una storia di fede, coraggio e grande determinazione. Ecco la nostra intervista a Serena, che presenterà questa sera il suo libro "Vivi, cammina, amati" alle Clarisse.

Un’esperienza di fede e fiducia nella vita, superando gli imprevisti che si possono incontrare lungo il sentiero di ogni singola esistenza: è la storia di Serena Banzato, scrittrice, psicoterapeuta e campionessa italiana di paratriathlon, raccontata nel libro “Cammina, vivi, amati” che l’autrice presenterà questa sera, 16 luglio, dalle ore 19, nell’aperitivo letterario organizzato presso il Bistrot Le Clarisse di Apolline, sotto le mura del castello di san Giorgio (scalinata San Giorgio 5).

«La vita è imprevedibile. Nel bene e nel male, non è mai dato sapere cosa succederà domani; quello che sembra un percorso già tracciato e sicuro può trasformarsi in una strada impervia, disseminata di ostacoli inattesi, di difficoltà che appaiono insormontabili. Ma non ci sono vie secondarie o scorciatoie: si può solo andare avanti, cadendo e rialzandosi, con la meta ben chiara in testa». Tutto questo Serena Banzato l'ha imparato sulla propria pelle e lo ha affidato a queste pagine, narrando il suo viaggio di giovane donna, mamma e atleta, che realizza il sogno di partire per il cammino di Santiago, e come questa esperienza le abbia cambiato la vita per sempre, nel modo più inaspettato.

Serena è scampata alla morte per un sospiro: ciò che sembrava un infortunio da nulla, si è rivelato l'inizio di un incubo che mai avrebbe immaginato di vivere. Ma, nella tragedia, ha imparato che le seconde occasioni esistono e che le matite, anche se spezzate, possono colorare ancora. Al termine della presentazione l’autrice sarà a disposizione per rispondere a domande e curiosità del pubblico e per firmare le copie del libro (aperitivo su prenotazione, tel. 333.9572386).

Abbiamo incontrato l'autrice che ha risposto ad alcune nostre domande e ci ha raccontato la sua storia.

Chi era Serena Banzato prima di iniziare il Cammino di Santiago?

Serena Banzato era una ragazza madre di un bambino di tre anni e mezzo, piena di interessi e di vita, che all'epoca faceva la maestra dell'infanzia e di nido da circa dieci anni e che studiava anche psicologia clinica. Uno dei suoi sogni, infatti, era diventare un giorno psicologa: era già psicologa infantile ma era prossima alla laurea anche in psicologia clinica. Sportiva, aveva provato tantissimi sport nella sua vita, ma il suo grande amore era il podismo, le corse lunghe, tanto da ricevere anche titoli importanti in gare di maratona e mezza maratona. Quello che dava un pò per scontato erano le sue gambe. Quindi una giovane mamma, un'atleta, una lavoratrice, una studentessa.

Poi un giorno la decisione di percorrere il Cammino, perché? 

Il Cammino è sempre stato uno dei miei sogni nel cassetto. Per tanti anni da giovane sono stata scout, chi ha fatto questo percorso sa che è scout per sempre e quindi io mi sento tale. Ero in un momento un pò stressante della mia vita, avevo la tesi pronta per la mia seconda laurea in psicologia clinica, avrei dovuto discuterla a settembre. La mia compagna Laura mi ha regalato due biglietti per prendere l'aereo per cominciare il Cammino di Santiago. Quindi nasce come un regalo di laurea al momento giusto per potermi riposare, perché io abituata a correre, prendere lo zaino, camminare, rallentare, paradossalmente per me era un modo di riposarmi.

Il Cammino amplifica le emozioni, che cosa si prova giorno dopo giorno?

Tra i tanti cammini che esistono per raggiungere Santiago, abbiamo scelto il "Cammino del Nord", il più suggestivo, paesaggistico, lungo la costa e l'Oceano, ma è anche il più difficoltoso con sali scendi importanti, tappe molto lunghe dai 30 a 50 km tra ostello e ostello, attraverso il nulla, paesi fantasma. E' quello meno gettonato dai pellegrini, infatti se ne incontrano pochi. Avevamo scelto quello con l'idea di vivere un'esperienza intima e meno turistica, più introspettiva. Avevamo deciso di spegnere i cellullari, di usare le mappe, di isolarci un pochino.

Il Cammino è pieno di emozioni, anche se il libro non è autobiografico, ho deciso di toccare un pò queste emozioni, la prima emozione, la più difficile, forse, era quella di lasciare mio figlio, io che ero abituata come ragazza madre a portarlo dappertutto, questo era il primo viaggio senza di lui. Quindi la prima emozione è stata quella di lasciarlo e di fare una cosa tutta per me. Il Cammino ti regala emozioni meravigliose, tutti mi dicevano che sarei tornata diversa, che non sarei più stata la stessa, mai avrei pensato a questi livelli, però le emozioni erano tante. C'erano paesaggi che mi porto nel cuore, il rumore dei nostri passi, i momenti goliardici tra me e Laura, e i momenti di stanchezza, i pochi incontri ma speciali, gli animali liberi. Il senso di libertà e di infinito si respiravano giorno dopo giorno, in una semplicità pazzesca, perché si viveva con l'essenziale. 

Che cosa è successo un giorno lungo il Cammino?

Eravamo a pochi chilometri dall'arrivo, mancavano 100 km, due tappe, all'arrivo a Santiago. Da una semplice vescica sul tallone sinistro, ho iniziato ad avere sintomi di malessere importanti, che all'inizio non ho subito collegato con la gamba. Poi ho vissuto tappe trascinandomi e sentendo che il mio respiro peggiorava di ora in ora. Quello che era un cammino di vacanza, si è trasformato all'improvviso in un incubo. Con tutta la fatica del caso, eravamo in luoghi sperduti, mi sono ritrovata ricoverata in un letto di ospedale, sentendomi dire che avevo una gravissima infezione mortale, una fascite necrotizzante, causata da un batterio che si spande rapidamente e lascia 48 ore di vita, e il 75% di coloro che lo contraggono, muoiono. L'unica via per sopravvivere è l'amputazione dell'arto dove questo batterio entra, o la pulizia a vivo e lo svuotamento della zona infettata. Quindi mi sono ritrovata a lottare tra la vita e la morte, a dover salutare tutti a casa, perchè avevo perso troppe ore lungo il cammino, sono arrivata agonizzante in ospedale, e poi tutto questo ha portato in un anno a tre operazioni per salvarmi la vita, due operazioni dove mi avevano garantito l'amputazione dell'arto e le altre otto dove l'arto è stato svuotato da sotto il ginocchio. Oggi vengo definita "amputata con l'arto" perché è stato svuotato, e ho perso la sensibilità e il movimento del piede, come se avessi una protesi umana, con i dolori degli amputati, il dolore fantasma e il dolore cronico. Mi ritrovo con una gamba che ha una disabilità, ma nonostante questo con camere iperbariche, operazioni, fisioterapia e tanta pazienza, nonostante mi abbiano detto più volte che non sarei tornata a correre, oggi ho ripreso tutto anche con gli interessi e ho imparato a correre sfruttando la gamba sana e usando la gamba che non funziona come appoggio, ho reimparato a camminare e a correre da zero.

Hai deciso di raccontare la tua storia attraverso il libro “Cammini, vivi, amati”, mettendo molto di te tra le pagine, che cosa in particolare? E perché questo titolo?

La decisione di raccontarmi in un libro è nata negli anni. Durante il Cammino con Laura usavamo un taccuino dove scrivevamo le nostre emozioni, scrivere mi è sempre appartenuto, è stato un modo per fissare e non farmi scivolare le emozioni e quello che vivo. L'idea del libro nasce in modo semplice da esperienze dirette: una volta ritornata e concluso il calvario di malattia, la mia storia era diventata nota nella mia zona, tant'è che alcuni educatori, capi scout, capi ACR, parrocchie e scuole mi invitavano a raccontare la mia storia. Quando portavo la mia testimonianza di fede, di sport, di risalita, di riscatto, a ragazzi, adulti, anziani, vedevo che tutti si portavano a casa qualcosa di buono per sé. Da lì è nata l'idea di scrivere il libro e di fermare questo per coinvolgere un pubblico più ampio, ma non con l'idea di un'autobiografia che osannasse me stessa. Racconto sullo sfondo il mio "Cammino di Santiago", quello che è successo, quindi la mia malattia e tutto il percorso per sopravvivere, salvarmi la gamba, per tornare a vivere. Però diventa proprio uno sfondo, il lettore cammina con me lungo il Cammino di Santiago, ma entra anche dentro di sé. Diventa un libro che si distoglie da me. Ho cercato di fare in modo che terminato il libro, il lettore non abbia un'idea di me come di un supereroe, ma che pensi che siamo tutti dei sopravvissuti e che siamo tutti supereroi nella nostra vita.

Il titolo racconta come ho immaginato il libro. Nella prima parte "cammina" invito il lettore a camminare con me e dentro di sé, toccando aspetti in cui il lettore può imparare a riconoscere cosa rende pesante il proprio "cammino", così da lasciare andare questi pesi per camminare più leggero nella propria vita. "Vivi" è la parte dove parlo di aspetti di 'guarigione, di risalita e di rinascita, e "amati" è forse la chiave di lettura finale alla quale si può arrivare e che è l'aspetto dove spesso siamo più carenti, riuscire a volere bene a noi stessi e poi anche all'altro.

Nel volume accompagni per mano lungo il Cammino anche il lettore raccontando la tua esperienza e rendendolo partecipe in maniera coinvolgente attraverso un prima, un durante e un dopo. Sei partita portando con te dei pesi, poi man mano che il tuo Cammino procedeva hai “imparato qualcosa”, poi un giorno la tua vita è cambiata completamente, ma con una grande forza “ti sei allacciata le scarpe e sei ripartita da zero"…

Questo è il percorso che ho fatto e che faccio con i miei lettori e i miei pazienti. Riuscire a lavorare sui propri "freni a mano" o anche sugli ostacoli che la nostra vita ci pone, riuscendo a trasformarli in trampolini di lancio, in occasioni di cambiamento, in dono, in consapevolezze nuove e riprendere in mano il proprio percorso. Quindi "allacciarsi le scarpe e ripartire da zero", nel mio anche da sotto zero perché é stato difficilissimo superare momenti critici, come la consapevolezza di avere ancora poche ore di vita, dover salutare tutti i miei cari e lasciare mio figlio orfano. Però effettivamente ancorarsi alla vita diventa un gancio potentissimo per riuscire a reinventarsi, anche quando ci sono cambiamenti forti, come nel mio caso dove ora c'è una disabilità e una situazione di dolore cronico. Però ci si può reinventare, questo cerco di trasmettere al lettore, ma anche ai miei pazienti nel quotidiano. 

La prefazione del libro è di tuo fratello Davide Banzato, che rapporto hai con lui?

Siamo quattro fratelli, papà non c'è più, ma c'è la mamma. Il rapporto con i miei fratelli è speciale, con ognuno di loro, sono la più piccola di quattro, siamo tutti molto diversi, ma rispettosi dei nostri rispettivi stili di vita, scelte e modi di essere,. Con Davide probabilmente per vicinanza d'età, fin da piccola siamo stati molto vicini, giocavamo insieme tantissimo. Questo ci ha avvicinato nel tempo, anche per il fatto che siamo simili di carattere e come passioni. Non a caso ora ci troviamo a fare due professioni dedicate al prossimo, perché lui è sacerdote e io psicoterapeuta. Negli anni ci siamo trovati anche a collaborare, perché abbiamo lavorato insieme come operatori di strada nella stessa comunità, anche questa un'esperienza che ci ha tanto unito. Il rapporto attuale è profondissimo, ora che siamo adulti c'è un bene viscerale. Anche se mio fratello è andato via di casa molto giovane, a 17 anni, per iniziare il percorso del Seminario Minore e la convivenza con lui è stata breve, nonostante la distanza fisica, siamo sempre in contatto. Siamo i primi che reciprocamente si chiamano laddove ci sia bisogno di una preghiera, di un appoggio, di un confronto. C'è molta stima, pur avendo idee diverse.

Questa esperienza ha cambiato l’ordine delle tue priorità, chi è ora Serena Banzato?

Serena oggi è una donna che continua alcune cose esattamente come prima. Il mio ordinario è semplice, è fatto di impegni, di tante cose. Sono mamma, anche di un altro bambino, che non a caso si chiama Santiago, un nome importante. Ho mantenuto le mie passioni sportive, anzi ho fatto un percorso di riabilitazione e fisioterapia che continua, per imparare a convivere con una gamba malata. Quindi oggi sono una paratleta, che ha titoli importanti nella corsa e anche nel Triathlon, sono campionessa italiana di gare su pista e di paratriathlon e sono entrata nella grande famiglia dei paratleti. Mi sono anche laureata più volte, sono diventata oltre che psicologa dell'infanzia e psicologa clinica, anche psicologa dello sport e psicoterapeuta. Contino ad essere studentessa perché per noi terapeuti la formazione è continua. Al momento non sono più maestra, ma una professionista come psicoterapeuta.

Le priorità della mia vita non sono cambiate, nel senso che anche prima mettevo davanti l'aspetto umano, la mia famiglia, i miei figli. Quello che è cambiato è il modo in cui vivo il mio ordinario, vivo con una pienezza diversa il mio presente, avendo toccato con mano la fragilità della vita, la possibilità di morire. Ogni tanto mi chiedo: "Ma se oggi fosse il mio ultimo giorno, sto vivendo come desidero? Vivo in pienezza dando agli altri il massimo?". Questo aiuta ad orientarmi, a ritararmi, quando nell'ordinario sono sopraffatta dagli impegni e dal fare. E' cambiato il mio sguardo alla semplicità delle mie giornate che acquistano valore, vivo consapevolmente sapendo di essere una sopravvissuta. Vivo con un senso di gratitudine continuo.

 

 

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