«Io non sono ancora entrato in una di quelle baracche di legno che costituiscono il tessuto abitativo di Neves, di Santa Catarina e degli antichi nuclei del Distretto di Lembà, tra i più poveri dell'isola: ma le ho viste, e la sensazione è che ben poco sia cambiato rispetto a un secolo fa. Le baracche sono senza acqua, luce e gas, non c'è alcuna rete fognaria e nemmeno la latrina; la vita giornaliera trascorre tutta fuori casa, al lavoro o sulla strada; i panni si lavano nei fiumi e si fanno asciugare distesi sulle pietre della riva; i bisogni si fanno nei campi o in spiaggia». In compenso gli abitanti «non soffrono la fame – non l'hanno mai sofferta – perché la natura è estremamente generosa di pesce e di frutta».
A raccontare queste cose è uno spezzino, uno dei pochi, pochissimi, che ha pensato di recarsi in una terra lontana non con intenti rapaci, per depredarla di qualcosa, poco o tanto che sia, come hanno fatto quasi tutti coloro che lo hanno preceduto sulle rive africane, bensì per esserle d'aiuto, per portarvi qualcosa: un'idea di amicizia, di cooperazione, come è più opportuno dire nel caso specifico.
Il luogo si chiama São Tomé e Principe, una repubblica democratica indipendente formata da una ventina di isole – le più grandi sono appunto São Tomé e Principe – situate nel bel mezzo dell'oceano Atlantico, nel golfo di Guinea. L'arcipelago, all'epoca disabitato, fu scoperto alla metà del XV secolo dai portoghesi che vi insediarono una colonia, popolandola poi, tanto per non farsi mancare niente, con moltissimi schiavi africani messi a lavorare nelle piantagioni per la produzione di zucchero prima e di caffè e cacao poi. Finalmente ottenuta l'indipendenza (1975), gli abitanti dell'arcipelago si ritrovarono con frutta e pesce – offerti da madre natura – per non morire di fame, e con una lingua "regalata" loro dai conquistadores di un tempo: il portoghese.
Lo spezzino andato invece a dare una mano a quella gente è un personaggio famoso qui da noi: è Giorgio Pagano, per un ventennio amministratore (assessore e sindaco) della Spezia e ora impegnato nella cooperazione internazionale, vale a dire in un'opera che una volta tanto non è di saccheggio bensì di vero aiuto, non di carità ma anzi di amicizia. In fondo, sarebbe una sorta di risarcimento, tenuto anche conto del fatto che da lì è venuto l'uomo, e che lì dovrebbe tornare per ritrovarsi.
Dall'altra parte del fronte – termine non improprio perché di una guerra si tratta – ci sono potentati finanziari, singole persone o fondi di investimento più o meno sovrani, detentori insomma di smisurati capitali, che come in un gigantesco gioco del Monopoli si comprano paradisi naturali, con popolazioni incorporate (paghi uno prendi due), per farne paradisi artificiali per turisti.
Qualcuno dirà: è il progresso, bellezza! Sì, vero, lo chiamano progresso, ma ci si dimentica che mai come in queste situazioni le colpe dei padri ricadono sui figli! Quale mondo gli stiamo trasferendo con la nostra idea di progresso?
Ebbene, lasciando perdere i pistolotti moralistici, penso che in questo caso più che fare una recensione valga un invito a leggere. Leggere cioè il libro che Giorgio ha di recente pubblicato per le Edizioni Cinque Terre intitolato giustappunto "São Tomé e Principe Diario do centro do mundo".
Pagano è impegnato nell'arcipelago con l'associazione Funzionari senza frontiere, da lui stesso presieduta, per l'elaborazione di un progetto dell'Unione europea che è una sorta di Piano strategico o Piano urbanistico, che va sotto il nome burocratico di "Piano integrato di sviluppo sostenibile e inclusivo del Distretto di Lembà e delle Linee direttrici del Piano di ordinamento territoriale di Neves", capoluogo di quel Distretto. Dunque lui, insieme ad altre quattro persone, il sarzanese Claudio Rissicini, lo spagnolo Pol Fontanet e i saotomensi Litoney Natos e Candido Rodriguez, sono lì per offrire una collaborazione, un partenariato senza secondi fini di carattere mercantile; gettare le basi – in Africa – affinché interi popoli non siano costretti a muoversi per sfuggire a un'esistenza senza futuro.
Al fondo di tutto questo deve esserci una visione «che all'opera di accoglienza e di integrazione di chi è costretto a fuggire accompagni l'opera volta a eliminare i fenomeni che sono alla base di questa fuga: le guerre, la fame, il cambiamento del clima. Il compito della cooperazione internazionale è questo. Dobbiamo evitare – afferma Pagano – di concepire la cooperazione come l'ha concepita l'Unione europea con il suo patto scellerato con la Turchia: io ti pago perché tu ti tenga i migranti, non importa come e dove».
Il rischio è evidente, il rischio è che la cooperazione internazionale «si trasformi in un sostegno non ai popoli, per uno sviluppo sociale più equo, ma ai governi e al loro potere, in cambio di fermare le persone che scappano dai regimi. La cooperazione internazionale deve invece servire a costruire, in partenariato con gli Stati, gli enti locali e le organizzazioni della società civile dei Paesi poveri, la pace, la democrazia, lo sviluppo sostenibile, la giustizia sociale e ambientale. In gioco non c'è solo il futuro dell'Africa, in gioco ci sono la coesione e i valori del progetto europeo».
Se non capisco male, da laggiù, da quelle isolette sperdute nell'oceano, abitate da 165mila persone, viene dunque un messaggio che gli italiani non possono ignorare, se vogliono ancora sperare di non precipitare nel baratro della barbarie: occorre una politica che muova le passioni e migliori le condizioni di vita della gente, «non una zavorra subalterna all'economia come oggi. Una politica non separata dalla società, non elitaria, non disconnessa dalla vita», dice Pagano. In sostanza, la politica di un tempo, che poi è quella di neanche tanto tempo fa, a ben vedere, cioè la politica che traeva la sua ragione d'essere dal fatto di operare al servizio del cittadino, del suo benessere e del soddisfacimento dei suoi bisogni primari nel nome della solidarietà.
L'impressione, insomma, è che il futuro dell'Europa, e di conseguenza dell'Italia, si giochi oggi a cinquemila chilometri da noi, in Paesi come São Tomé e Principe, esperienze dalle quali avremmo molto da imparare.
(foto: Enrico Amici)