Sono settimane che si sente un gran rumore. Legge di bilancio, cuneo fiscale, MES, PNRR, premierato, pistole a capodanno e chi più ne ha più ne metta. Conclusa la grande abbuffata natalizia ci troviamo ad assistere a quella della politica, che non si è mai conclusa. Una grande tavola imbandita dove si può trovare di tutto, ce n’è per tutti i gusti. Sfoglio, leggo, ascolto, accendo la tv, insomma mi appassiono anch’io. Per non farsi mancare nulla arrivano anche le solite interviste di altrettanto appassionati esponenti politici locali che certificano uno dei grandi rischi di questa fase: l’abitudine al vuoto cosmico delle parole svuotate del loro significato. Siamo in una fase storica nella quale vale tutto, si può dire tutto e il contrario di tutto.
Quindi alzi gli occhi e ti rendi conto che a volte la fantasia supera di gran lunga la realtà e che quell’uomo che diceva: “I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato”, aveva fatto una sintesi straordinaria.
Rimane però il divertimento e la curiosità di vedere sino a dove ci si può spingere, a che altezza potrà arrivare l’asticella. Un divertimento e una curiosità però che passano quasi subito.
Marco Follini, non certo una verginella della politica, sulle colonne de “La Stampa” di qualche settimana fa, ha dipinto con estrema lucidità quello che sta accadendo all’interno dei partiti. Strumenti da lui descritti come luoghi abitati da personale politico ubbidiente al capo, in forma del tutto a-critica, e ormai completamente disinteressanti, e io aggiungo disabituati, allo scontro interno per far prevalere idee, posizioni, visione delle cose.
È proprio vero che nel nostro bello e dannato paese non esistono mai le mezze misure. Se nella prima repubblica tutto era il frutto di faticose, interminabili ed estenuanti discussioni oggi sembra essersi rovesciato il tavolo e per riflesso la “più tremenda” delle reazioni: partiti immaginati come luoghi rumorosi e collegiali trasformati in luoghi di silenzi e sottomissioni. Ho assistito per anni allo sprezzante dibattito nel merito della trasformazione dei partiti in “comitati elettorali” o nella “personalizzazione della politica”. Timori che hanno trovato riscontro in una realtà ancora peggiore di quella immaginata o descritta. Partiti trasformati in fondazioni personali sotto scacco del capo bastone di turno che a sua volta si garantisce lunga vita (indipendentemente dai risultati elettorali) controllandone i CDA, il più delle volte essendone membro a vita. Insomma, la privatizzazione, altro che personalizzazione, di strumenti collegiali in mano di pochi. Quei pochi che hanno potere di veto nella formazione delle liste elettorali. Perché una delle grandi involuzioni sta anche qua. Il parlamento non è soltanto ridotto a scendi letto del Governo perché si abusa dello strumento della fiducia o perché arriverà il premierato. I parlamentari sono ubbidienti e silenti perché sono gli stessi che popolano i corridoi delle fondazioni dei partiti in attesa di essere blindati in qualche collegio sicuro. Da lì il cane che si morde la coda.
Il Deputato, o Senatore, che deve essere ricandidato dal capo bastone di turno non potrà far altro che assecondare e ubbidire agli ordini perché spogliato dell’unico vero contropotere in grado di dargli autonomia: le preferenze del suo territorio di appartenenza. È il consenso l’unico strumento in grado di garantire piena libertà e autonomia agli eletti.
La privatizzazione dei partiti si combatte con il liberismo del consenso, mi si conceda la forzatura per affermare il concetto.
Di contro, infatti, ogni altro livello elettivo, dal Consiglio Comunale a salire, prevede la possibilità di dare una o più preferenze. Come si può continuare a sostenere che i territori e gli elettori devono poter vedere rappresentati i propri diritti, interessi, progetti se chi deve essere eletto per farlo è impegnato a capire come continuare ad ingraziarsi il capo? È un controsenso ipocrita al quale non crede più nessuno. Il vero clientelismo sono le liste bloccate, non le preferenze. Per far tornare protagonisti i territori, le comunità e le istanze che queste a gran voce rivendicano, abbiamo bisogno che questo meccanismo di delega ritorni anche in parlamento come è per tutti gli altri organi elettivi. Un principio che apre ovviamente la strada ad un dibattito serio su quale legge elettorale cucirvi e su quale sistema governativo vederla appoggiata. Un principio cardine se vogliamo ricostruire un tessuto lacerato. La contendibilità alza obbligatoriamente l’asticella della qualità e della caratura del personale politico. Una contendibilità però che deve necessariamente trovare forme di bilanciamento che lascino spazio di crescita anche ad un gruppo dirigente che deve trovare per forza di cose continuità nel percorso. Non mi sfugge il passaggio per il quale se vogliamo ricostruire un principio di rafforzamento di qualità della vita democratica dei partiti privatizzati, a favore dell’impegno civile, bisogna necessariamente tutelare anche chi poi sarà chiamato a guidarlo questo percorso.
I gruppi dirigenti, come in tutti i contesti, vanno coltivali e tutelati. È necessario infatti che ci sia una forte selezione al principio, che mi rendo ben conto che non possa passare solo ed esclusivamente dal consenso.
Perché altrimenti lì, davvero, si rischia di passare dalla padella alla brace dei comitati elettorali. Insomma, urge un momento di riflessione potente in grado di rimettere in discussione tanto degli ultimi vent’anni.
Con questo si può sostenere che ogni problema sarebbe risolto? Ovviamente no. Sostengo però che da qualche parte bisogna pur cominciare, con un po’ di coraggio e senza ipocrisia. La crisi che stiamo vivendo è sotto gli occhi di tutti. Si può decidere di arrendersi (e per qualcuno questa resa può significare il mantenimento di una piccola e triste posizione di rendita personale) o in alternativa ricostruire luoghi di discussione e decisione. Una cosa vera, una cosa che potrebbe essere per davvero un buon inizio.