Euripide, l'ultimo in ordine di tempo dei tre grandi tragediografi di Atene, fuggito dalla sua città si trova a Pella, in Macedonia, alla corte del re Achelào, che lo ha invitato perché vi rappresenti sue tragedie. Fra queste egli compone "le Baccanti", che però non riesce a mettere in scena, perché raggiunto dalla morte, all'età di circa ottant'anni, avvenuta nel 406 a. C.. Il dramma verrà rappresentato agli agoni tragici di Atene soltanto nel 403 a. C., riportando il primo premio. Non è facile per noi moderni entrare nel cuore di questo dramma, ma non lo fu nemmeno per gli uomini del Mondo Antico. Si era ormai fissata e formata un'idea del grande drammaturgo, e cioè quella di un personaggio anticonformista, ateo e blasfemo, seguace di dottrine propugnate da studiosi della natura, oltre che filosofi, del calibro di Anassagora, nonché simpatizzante di dottrine altrettanto pericolose e dissolutrici, come quella propugnate dai cosiddetti sofisti, quei personaggi che, secondo alcuni studiosi odierni, avrebbero dato vita nel mondo ellenico a una vera e propria rivoluzione culturale, una sorta di "illuminismo greco". Ma se è così, come mai il dramma in questione ci mette davanti ad una vicenda in cui il dio Diòniso in persona, nelle sembianze di un sacerdote, un giovincello dinoccolato, accompagnato da un codazzo di donne invasate (le "Baccanti" o "Menadi", che poi vuol dire "le Folli"), pone in atto una serie di prodigi e miracoli, ultimo e supremo quello dello sbranamento rituale del povero giovane re Pènteo (per giunta suo cugino per via di madre), che non lo riconosce e anzi lo perseguita? Il bello è che detto sbranamento avviene sul monte sacro (il Citerone) per opera delle stesse seguaci del dio, le Baccanti, guidate dalla madre in persona, la povera Agàve, che ha perso completamente il senno, e pertanto non riconosce il figlio, scambiandolo per un leone. Alla fine, naturalmente e secondo i canoni dei finali euripidèi, appare sulla scena il dio in persona ("deus ex machina"!), spiegare il tutto alla povera madre rinsavita, oltre che agli spettatori. Ma certo la faccenda, messa in questi termini, non ha potuto sottrarsi alla miriade di quesiti che i critici hanno saputo mettere in campo. Primo fra tutti: e se davvero si desse il caso che Euripide, in vecchiaia, si fosse, diremmo oggi, "convertito"? E convertito alla forma di culto più irrazionale che si possa immaginare, lui, il cultore del razionalismo scientifico, che aveva sempre contrapposto nei suoi drammi, in ottemperanza anche con i dettami del suo amico Socrate, la passionalità annientatrice al controllo della razionalità? Noi non siamo in grado di rispondere, e questo no n solo perché lo spazio a disposizione è insufficiente rispetto all'enormità della questione, ma soprattutto perché il dramma del grande ateniese risulta bello, attraente, sconvolgente, abbagliante ..., nella successione delle scene che si alternano dolcissime e raccapriccianti, e che ci pongono dinanzi ad un fenomeno come quello del menadismo, senza intermediazioni di sorta, in modo tale che il dramma ci appare per quello che è e che deve essere. Perché dramma ("drama") vuol dire azione, azione scenica, nella quale tutto ciò che vi accade è come se fosse vero. Ultima considerazione e supremo pregio dell'opera: il mito di Dioniso, così assurdo e complicato per noi, viene trattato alle origini, il vecchio poeta, convertito o no, ci pone a contatto con le sue scaturigini, con in suoi primordi, tale e quale com'era apparso alle popolazioni greche quando aveva cominciato a diffondersi alcuni secoli prima, nella sua inaudita violenza. Le interminabili litanie dei cori, dedicati al dio, sono l'ultima perla di questo testo impressionante.
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