Il cielo grigio e la pioggia ad intermittenza non hanno fermato i fedeli musulmani che in città di sono radunati nei vari spazi di ritrovo per la consueta preghiera di gruppo in occasione della fine del Ramadan.
In vestiti tradizionali e spirito comunitario anche quest’anno alla Spezia si festeggia Eid al-Fitr ( عيد الفطر) che significa “rottura del digiuno”, occasione del primo giorno del mese di shawwal (شَوَّال) - il decimo mese del calendario lunare - che determina appunto, la fine del mese di Ramadan.
Quest’anno però si respira un’aria diversa perché parlare di festa è una parola troppo grande, in un clima geopolitico sempre più drammatico. Il pensiero va infatti a quella parte di mondo spaccata dalla guerra, in un Medio Oriente instabile dove per Gaza non c’è stata nessuna tregua.
Il Ramadan, il mese in cui i musulmani mettono in atto uno dei 5 pilastri dell’Islam, il digiuno (sawm - ﺻﻮﻡ ) - messo in pratica da quando sale il sole dell’alba e si rompe al calar del tramonto - è infatti un obbligo forzato per tutti quei palestinesi imprigionati tra i confini della striscia di Gaza, a cui sono stati lanciati dal cielo aiuti umanitari contenenti cibo - sufficiente appena per sopravvivere - a cui non hanno potuto accedere perché bloccati da spari sulla folla da parte dell’esercito israeliano.
Il Ramadan in città è comunque un’occasione per riflettere sulla compresenza tra persone di diversa etnia, in un luogo che è sempre più multiculturale. Spezia come città accogliente e inclusiva è ormai un luogo comune utilizzato molteplici volte da voci pubbliche nel corso dei mesi, ma è davvero così? Sebbene nelle sue decisioni pubbliche si siano infatti verificate manovre di inclusione sociale e cultuale, è vero anche che alcuni preconcetti non si sono ancora disfatti nelle mente delle singole persone. Ma sono proprio i singoli a comporre ciò che è sociale, motivo per cui riflettere sulla questione dell’inclusività e della compresenza può essere un’idea per comprendere meglio ciò che è in realtà meno familiare di quello che possiamo pensare.
L’inclusione sociale è un’azione reciproca. Spinti troppo spesso a pensare che “l’altro” - chiunque esso sia - debba inserirsi in un gruppo o in una società adattandosi ai modi di vivere già presenti, è un comportamento che viene adottato spontaneamente e che lascia nelle mani del “nuovo” tutta la responsabilità. Provare a mettere in discussione questo comportamento significa chiedersi quando sia effettivamente proficuo dettare delle condizioni così rigide entro le quali inserirsi, che risultano anche per gli studi di settore particolarmente difficili sotto diversi punti di vista. È davvero l’unico modo per vivere in compresenza?
Una compresenza che diventa però sempre più stretta e per la quale è necessario chiedersi quindi se “l’altro” sia effettivamente altro da noi, in una città in cui nascono e crescono persone che condividono luoghi, valori, istituzioni, spazi pubblici e che hanno la libertà di scegliere il proprio credo religioso.