Chi fa cosa. Un principio, un metodo, una domanda, uno strumento con il quale procedere, avanzare, studiare, programmare, includere, organizzare. All’interno di una azienda, di una squadra di calcio, di un partito, di una associazione, in ogni luogo, in ogni contesto sociale: il primo step che si affronta è l’organizzazione, la definizione dei ruoli, chi fa cosa.
Un passaggio scontato che può sembrare semplice ma che semplice non è. Affrontiamo da diversi anni il fenomeno della tendenza della sovrapposizione dei campi e delle funzioni. Anni nei quali, anche per la debolezza della politica, il terreno sul quale si organizza la società, e il ruolo che questa deve avere in tutte le sue articolazioni, viene condizionato da un sistema “misto” che ha creato il processo di sclerotizzazione al quale stiamo assistendo.
“L’Affaire Ferragni”, al netto del merito della vicenda sulla quale non intendo entrare, eredita tutto questo. Perché è diventata oggetto (in maniera quasi ossessiva) di polemiche, dibattiti televisivi e scontri politici? Perché così tanto lei? Solo perché ricca, giovane, bella e famosa? Non è solo questo. Quanti casi simili alla Ferragni esistono, sono esistiti ed esisteranno nel nostro paese o nel mondo? La ragione per la quale oggi è divampato questo incendio va ricercata nella confusione che ha mandato in tilt la prima domanda: chi fa cosa? Un’eredità che arriva da lontano. Si discute da diverso tempo della nuova veste del “woke capitalism”, letteralmente capitalismo risvegliato che sta per consapevole. Ecco perché Ferragni è sulla graticola. Non solo perché le pulsioni manettare di “Raphaeliana memoria” ormai sono dentro di noi, ma perché ha deciso di interpretare una funzione che non dovrebbe essere la sua.
Un’imprenditrice che opera su Instagram vende sogni. Vende prodotti rivolti ad un pubblico che spera e sogna di vivere come lei. Chi compra la borsa di Chiara Ferragni la compra perché vuole sentirsi come lei. Chi usa i suoi cosmetici li usa perché vuole assomigliare a lei e aspira a vivere una vita come la sua. Sino a qua infatti nulla di male, niente di sconvolgente o moralmente rilevante. Silvio Berlusconi su questo meccanismo ha costruito una carriera imprenditoriale e politica. Un messaggio però che non ha mai prodotto invasioni di campo. C’era un meccanismo molto semplice, per questo efficace, che ha animato tutta quella stagione: “se ce l’ho fatta io lavorando duramente, puoi farcela anche tu.” Fine delle trasmissioni. I suoi programmi televisivi e tutte le sue molteplici attività imprenditoriali (includo anche Forza Italia tra queste) non avevano l’ambizione di ergersi a guida morale. “Vieni con noi, stai con noi, vota insieme a noi perché dall’altra parte ci sono i comunisti che mangiano i bambini e amano le tasse, mentre noi siamo per la libertà e il benessere di tutti.”
Ferragni questo non riesce più a farlo come faceva prima perché è caduta vittima di se stessa. Vittima delle aspettative che ha attirato su di sé. Se fai campagne per i diritti, per la parità di genere, per le raccolte fondi destinate al sociale, devi anche capire che in quel preciso momento (proprio perché ci metti la tua faccia e il tuo corpo che sono il brand aziendale sul quale hai costruito il tuo progetto imprenditoriale) diventi un simbolo che catalizza domande, necessità, istanze. Qua il cortocircuito.
Se vai sul palco di Sanremo con la scritta “pensati libera” stai interpretando per una precisa scelta (con una buona dose di rischio) quel ruolo che ti pone automaticamente dentro una stridente contraddizione che mette in crisi la domanda più importante: chi fa cosa? O fai Giovanna d’Arco o fai business.
Hai deciso che il tuo pubblico, i tuoi clienti, i tuoi follower, diventino improvvisamente il tuo popolo. Lo stesso popolo che oggi non capisce più chi ha davanti. Una scelta che si è rivelata indubbiamente azzardata. Ecco perché oggi si parla così tanto di lei, ecco perché c’è qualcosa di più, ecco perché non è solo la Ferragni imprenditrice ad essere messa in discussione.