"Da stamattina siamo al Sant'Andrea, sospetta appendicite per la bimba, 10 anni. Per la prima volta andare in ospedale incute timore invece che speranza. I pediatri non vengono a casa. Ci chiedono se possiamo raggiungere l'ospedale in modalità autonoma perché le ambulanze... non si sa mai.
All'arrivo ci accoglie un tendone che sa di militare, i paramedici sbuffano sotto tute da alieni ma trovano comunque un momento per scherzare con la bimba. In reparto solo un genitore, l'altro non potrà stazionare non solo in reparto ma dovrà uscire dall'ospedale.
Le analisi sono lente ad arrivare, i dottori ci dedicano attenzioni tra urgenze varie.
Cerco di restare un po' tra i giardini, non sono ancora pronta a lasciare la bimba. L'idea che possa avere bisogno di me è troppo forte.
Ovunque, tutto il personale indossa mascherine e protezioni monouso. Gli stralci del personale sono sconfortanti. La stanchezza, la mole di lavoro, l'ignoranza.
Nelle panchine distanti da me, una coppia che attende l'esito di una operazione importante. Un vecchietto che non sa cosa fare. Una mamma come me che si sente inutile. Non ci fanno entrare in reparto, nessuno di noi, al di là della gravità, al di là del desiderio di vedere chi amiamo.
Nei reparti non sorride nessuno, ci allontanano, ci spiegano, ci aiutano con fermezza ma è un compito immane per cui non diremo mai grazie abbastanza.
State a casa, questo virus ci isola, ci fa restare soli, ci tiene distanti da chi amiamo e da chi amiamo di più perché è in difficoltà. Non andate a correre, non uscite, non portate il cane in tenuta perché lui ha il diritto di correre ma io ho il diritto di non ammalarmi e di stare con mia figlia. Non sottovalutate questo pericolo. Questo è il momento di non fare. Andrà tutto bene se osserviamo le regole".
Sheila Cabano