Il sovraffollamento delle carceri non è uniforme sul territorio nazionale: alcuni istituti sono sottoutilizzati, altri superano di gran lunga il tasso di affollamento medio. Da dove ripartire? E’ ormai dimostrato, anche da dati statistici, come là dove esistono le misure alternative si garantisca assai di più l’abbattimento della recidiva e dunque la sicurezza della società. Le misure alternative alla detenzione consentono al soggetto che ha subito una condanna di scontare, in tutto o in parte, la pena detentiva fuori dal carcere: in questo modo si cerca di facilitare il reinserimento del condannato nella società civile sottraendolo all'ambiente carcerario.
Le misure alternative alla detenzione, regolate dagli artt. 47-52 della legge 354/1975 sull’ordinamento penitenziario, si applicano esclusivamente ai detenuti definitivi (cioè con sentenza non più impugnabile) e sono principalmente l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare e la semilibertà.
Sono questi le tematiche affrontate ieri, 8 giugno, durante il convegno “I detenuti stranieri - Rischi di proselitismo e progetti di integrazione”, ospitato nel salone di Teleliguriasud e moderato dall’avvocato Daniele Caprara, Presidente Camera Penale della Spezia. Al centro del dibattito anche il primo decreto attuativo della riforma penitenziaria giunto ad un passo dalla conclusione dell’iter e ora in stallo con il nuovo governo, quello che elimina gli automatismi affidando maggiore discrezionalità alla magistratura di sorveglianza sulla possibilità di ricorrere alle pene alternative al carcere nel percorso punitivo/rieducativo di ciascun condannato. Presentato anche il libro “Stranieri in Carcere e Proselitismo” a cura di Maria Cristina Bigi (direttore casa Circondariale della Spezia) e Roberto Sbrana (consulente Psicologo Osservazione e Trattamento detenuti presso Ministero della Giustizia), una ricerca qualitativa che i due autori hanno svolto grazie all'utilizzo di questionari somministrati a 50 detenuti dei circa 80 detenuti stranieri che si trovano nel carcere della Spezia.
“Il libro - ha spiegato Bigi - è un’indagine di tipo qualitativo che vuole fornire degli spunti di riflessione. Il mondo della detenzione è solo un altro spaccato della nostra società. Quello che più ci ha stupito nell’indagine è come ci sia un vero e proprio salto nell’ambito della carriera criminale e come le persone rimaste coinvolte anche in attentati non abbiano in realtà un pedigree di persona pericolosa, sono piccoli criminali talvolta spacciatori o alcolisti. Notiamo anche come la quasi totalità dei detenuti stranieri non avesse commesso crimini nei paesi d'origine. Quindi ci siamo chiesti cosa spingesse a compiere attività così pericolose e cosa si può fare all’interno degli istituti per evitare questo tipo di proselitismo.
Nel fare questo lavoro quello che è emerso è proprio la ricerca della normalità e come queste persone abbiano difficoltà in più rispetto ad un detenuto italiano anche per come vengono rappresentati o etichettati dalla rappresentazione che noi abbiamo dello straniero. In realtà quello che spinge le persone a collaborare è essere riconosciuti come persone all'interno della società; quando ciò non accade questi vengono spinti ai margini della società”.
Ha sottolineato Sbrana: “La prima cosa che abbiamo percepito è una grande disponibilità da parte dei detenuti a farsi intervistare riscontrando dei desideri “normali” parlando del dopo pena. Tra le risposte per es. 'vorrei frequentare di più la mia famiglia', 'trovare un lavoro onesto perché l'attività criminale non paga', 'più cultura'. Questo a sottolineare che noi siamo l’insieme di relazioni sociali e dove non c’è socialità non c’è possibilità di cambiamento”.
“La sicurezza, dalle statistiche di antidetenzione penitenziari, esce fuori dai regimi alternativi. Il senso di insicurezza diffuso nella nostra società, e alimentato dai media, potrebbe esser colmato fornendo i dati della realtà di persone che vengono reinserite con bassa recidiva. Il Dap (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) spesso non comunica questi dati e noi leggiamo solo ciò che non funziona” .
Il carcere rimane l’unico spazio nel quale poter investire poiché gli irregolari stranieri, in maggioranza negli istituti penitenziari, non hanno nessuna possibilità di procedere a misure alternative ed essere presi in carico da comunità terapeutiche. Oltretutto la sentenza Torregiani - caso in cui l’Italia è stata condannata e, come è noto, riguarda trattamenti inumani o degradanti subiti dai ricorrenti, sette persone detenute per molti mesi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, in celle triple e con meno di quattro metri quadrati a testa a disposizione - ha affrontato il problema strutturale del disfunzionamento del sistema penitenziario italiano.
Presente al dibattito anche Emilia Rossi, avvocato e componente del Collegio nazionale del Garante dei diritti delle persone detenute, che ha spiegato: “Da questa sentenza qualcosa è cambiato all'interno dell’amministrazione del sistema penitenziario e nell’esecuzione della pena. Un importante messaggio culturale per il rispetto della dignità della persona”.
E se recuperare vuol dire quindi per la società avere anche dei soggetti economicamente attivi, e che quindi non pesano sulle casse dello Stato perché non devono essere mantenuti in carcere, l’Italia – almeno rispetto ad altri vicini europei – sembra esser ancora in una situazione di stallo.