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Alberto Scaramuccia ci racconta qualche curiosità su un simbolo della cucina dea Speza.

Io ne sono ghiotto tanto che a gran voce reclamo sempre lo jus primae fectae, un diritto che mi arrogo non saprei dire in base a quale principio. So solo che ogni volta sono in tanti a contendermi tale privilegio, così assatanati da non accorgersi neppure che quell’ultima parola latina me la sono inventata di sana pianta ché, se avessi detto frusti come Cicerone comanda, nessuno mi avrebbe dato retta. È che a me, ma sono migliaia quelli che condividono questo mio gusto, a me piace farmela appena estratta dal ventre del forno che dev’essere rigorosamente a legna, dove è stata cotta in un’ampia teglia di rame, dal bordo piccolo lungo il quale si forma un perimetro circolare che appena si rialza in una crosticina abbrustolita. È una corteccia che non si scarta, sarebbe peccato mortale privarsi di una sola briciola di quella prelibatezza anche se il suo colore invece che tendere alla tinta dell’oro puro, si adagia su una nuance più scura.

Nulla di strano: anche al mare maggiore è l’esposizione al sole e più ci si scurisce ma non è il colore che fa la qualità. Tuttavia, all’inizio tutti si buttano sul centro della teglia, arraffano dove la consistenza è minore, dove il boccone che ingurgiti goloso ti si squaglia in bocca, sotto i denti che masticano gioiosi l’incanto della farinata. Perché è di questa che stiamo parlando, della farina di ceci diluita nell’acqua condita con il sale e versata poi nella padella dove è stato appena cosparso un sottile strato d’olio.

È un piatto povero ma chi la inventò fu certo grande gourmet perché qualsiasi chef è prima di tutto un grande buongustaio, un intenditore che propone le sue ricette sapendo di fare colpo perché le ha sperimentate su stesso. Del resto, Pasteur non provò il vaccino sulla sua persona per sperimentarne i benefici effetti ed essere certo di salvare l’umanità? E così è per tutto quello che riempie lo stomaco accontentando la gola: perché se un piatto che mangi ti dà soddisfazione, beh, fateci caso, quando ti alzi dal desco ti senti più sazio perché hai soddisfatto la fame e insieme appagato il piacere.

Cibo povero, dunque, ma con tanti nomi ché ogni luogo ha voluto dargliene uno proprio, secondo me per assicurarsi con quella sorta di imposizione battesimale ovviamente profana, un diritto di primogenitura che nessuna fonte documentaria potrebbe mai assicurare. Ma questo è il modo, culinariamente parlando, con cui ci si arroga il possesso di lombi nobili per interposta pietanza. Tanti nomi, quindi: torta all’ombra della Lanterna, cecìna sotto la torre che pende e poco lungi da lì presso i Quattro Mori, panella alle falde del monte Pellegrino che certo avrà sfamato Santa Rosalia. Ma me a preferisso ciamarla fainà, la farinata che con la mesciüa è il simbolo della cucina dea Speza. Chiederete, quale è la meglio? A me i me ciazo tüte e doa, a ne fo difeense. Sono convinto che anche Paride, non l’avessero obbligato, avrebbe dato dieci con lode a tutte e tre ma fu costretto a scegliere perché colà dove si puote avevano deciso che sarebbe dovuto succedere una guerra. Dato che a me non spettano fortunatamente decisioni di tale gravità, mi astengo dal giudizio: non per qualunquismo ma perché Pelè e Maradona era un piacere vederli giocare tutti e due dato che entrambi esaltavano il piacere degli occhi. Nel nostro caso, del gusto.

Anche se può anche essere street food e non solo cibo da tavola (se la mangi in piedi nessuno ti critica; al massimo ti rimira con sguardi in cui leggi solo invidia) la farinata non vanta molti riconoscimenti letterari ma uno, quello sì, è di grandissimo livello. Alla fine del 2000 Umberto Eco pubblica un romanzo che sarebbe diventato Libro dell’anno in Francia appena passato qualche mese. Quel testo esce un ventennio dopo Il Nome della Rosa e racconta le vicende di Baudolino, un picaro che non si stanca di raccontare storie dove è difficile individuare il confine fra realtà e fantasia, termine che nel suo caso si deve intendere come menzogna- Ma è il suo nome a dare il titolo al libro. Nel corso delle sue mirabolanti avventure, Baudolino si ritrova a Costantinopoli quando la città è dapprima assediata e poi conquistata dai Crociati nel 2004. I guerrieri con la croce avrebbero dovuto liberare Gerusalemme e il Santo Sepolcro ma alle Repubbliche Marinare che finanziano la spedizione, più cha Città Santa interessavano i porti del Mar Nero. In mezzo alle fiamme della sanguinosa conquista Baudolino, il nostro protagonista, si imbatte in uno studioso levantino, Niceta Coniate, che gira terrorizzato per la città in preda al fuoco avendo dovuto abbandonare come tutti gli altri cortigiani la Corte Imperiale dove i Crociati impazzano. Baudolino lo trae in salvo e lo porta con sé in una zona sicura della città che è in mano ai Genovesi. Siamo nel quartiere di Galata in cui a me piaceva tanto passeggiare sotto l’ombra della torre e sul ponte che si sdraia sopra il Corno d’Oro. A dispetto della precaria situazione esterna, nell’area genovese regnano sovrane la tranquillità e l’abbondanza così che ai due vengono imbanditi pranzi luculliani. In uno di questi fa la comparsa “una intera padellata di scripilita", la loro stiacciata di farina di ceci, croccante e sottile che avrebbero tagliato a fettine avvolte in tante foglie larghe, bastava poi metterci un poco di pepe sopra e sarebbe poi stata una sequenza di squisitezza, da nutrire un leone, meglio di una bistecca al sangue; e una fugassa, all’olio, alla salvia, al formaggio, e con le cipolle” (per chi volesse consultare, siamo alle pagine 213-14 della prima edizione). Insomma, Baudolino e Niceta si fanno in quell’occasione una bella scorpacciata de fainà che li aiuta a dimenticare quello che succede all’esterno mentre la strana coppia si racconta le faccende loro occorse fino a quel momento.

Resta da dire di quell’inconsueta parola, scripilita, con cui Eco battezza il nostro piatto. C’è chi dice che si tratti di un’onomatopea che riproduce il crepitio della farinata che si sbriciola sotto l’azione dei denti ma io preferisco un etimo diverso. Ho dovuto fare più di un tentativo ma alla fine, inforcato Il mitico vocabolario di greco, ho trovato quello che cercavo: scriblites, σκριβλιτησ, era una torta con il formaggio secondo il grammatico greco Ateneo e da questo gâteau Eco trae il nome per la nostra farinata. Resta da dire che nella città che per me è la capitale dea fainà, nessuno lesse questo libro altrimenti avrebbero detto della citazione del piatto. Eppure, come ho detto, il testo fu molto apprezzato dovunque, anche fuori dei patri confini. Non fu un caso se nella terra della Tour Eiffel meritò il riconoscimento di Livre de l'année nel 2000. Peccato! Ma ora non statemi a chiedere il perché nessuno se n’accorse.

Per dare una risposta adeguata dovrei pensarci un po’ di tempo ma adesso ho altro da fare: devo tirare fuori dal forno la farinata che, come le belle donne, non va fatta aspettare perché si corre il rischio serio che s’impazientisca e si dedichi ad altre compagnie. Ma che cosa mi chiedete ora? La farinata sui fornelli io che qualche riga ho detto essere un fanatico del forno a legna? Beh, che volete? In casa ci si deve accontentare, tanto la farinata è buona lo stesso: a prescindere e per definizione!


Alberto Scaramuccia

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