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di Francesca Dallatana - Migrazione e ritorno. Work and return.

Andare, andare. Con un chiaro obiettivo in testa: ritornare. Qualcuno si ferma e inizia una nuova vita in un Paese diverso, altri rientrano dopo avere fatto cassa, per quanto e come sia possibile ai lavoratori in trasferta. Le rimesse economiche rappresentano messaggi d’affetto al Paese di provenienza. Il ritorno nella terra d’origine degli emigrati italiani è un fenomeno diffuso. Andare altrove a lavorare ha rappresentato per molti una possibilità di riscatto sociale e di miglioramento delle condizioni di vita.
La globalizzazione inizia a metà Ottocento a partire dal mercato dal lavoro, cioè dallo spostamento di uomini e donne finalizzato all’espressione dei loro talenti. L’Italia è uno dei Paesi europei profondamente investita dal fenomeno dell’emigrazione di massa. Ma la globalizzazione non è solo un fenomeno economico.
Francesca Fauri, docente presso l’Università di Bologna, propone per l’editore Il Mulino un viaggio nella “Storia economica delle migrazioni italiane.” Non è una relazione solo di numeri e teorie. E’ una pagina viva della storia sociale del Paese, che ha condizionato stile di vita ed esistenze di intere comunità, trasformato la visione del futuro e ampliato gli orizzonti delle possibilità professionali a molti connazionali.
Migrare stanca, ma accende la sfida della curiosità. Impone uno scatto d’orgoglio verso il futuro. Rompe il gioco delle abitudini rassicurate dalla stasi.

Cultura della peregrinazione.
A lungo, il nomadismo professionale in molte Regioni italiane è stato una pratica diffusa. Ci si spostava, e ci si sposta, per esercitare un mestiere, dove è possibile realizzare un salario migliore. Francesca Fauri la chiama: cultura della peregrinazione. Si tratta di una radicata tendenza allo spostamento per esprimere potenzialità professionali, ma soprattutto per declinare la disponibilità della manodopera in un ambiente favorevole. Non si pensa al trasferimento definitivo, ma all’opportunistica possibilità di realizzazione delle risorse economiche necessarie alla vita quotidiana. Così, negli ultima parte dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento.
I tempi di permanenza lontano dalla terra d’origine dipendono dalle condizioni di vita e da quanto il nuovo ambiente sociale sia capace di aprire nuovi spiragli verso il futuro.
La motivazione più forte degli spostamenti di massa è combattere la miseria. A metà Ottocento il flusso di migranti verso altri Paesi è significativo e si impenna tra il 1890 e il 1914. Verso gli Stati Uniti e verso l’America Latina. E verso l’Africa, soprattutto per i gruppi di migranti provenienti dalla Sardegna e dalle Regioni del sud.
Stati Uniti, America Latina e Africa riservano accoglienze differenti a chi arriva da oltremare.
Accoglienza, tra possibilità e bossismo.

Nord America
Gli italiani in terra nord americana non sono molto graditi. Maschi, analfabeti, perlopiù senza competenze professionali, senza la volontà di imparare la lingua e di integrarsi. Fanno di tutto per mettere insieme in gruzzoletto per il ritorno, per il viaggio e per contribuire a un miglioramento temporaneo al bilancio familiare.
I sindacati americani non amano né la temporaneità e neanche la bassa specializzazione dei lavoratori italiani. Che si distribuiscono ai livelli bassi della catena professionale, dove la disperazione è strisciante e più tenace degli strumenti di supporto e di tutela del Sindacato. Lo sfruttamento è una malapianta dalle radici forti che si nutre di forza lavoro a basso costo e in preda alla disperazione. Storie di ieri, storie di sempre.
E’ un flusso nuovo, quello dei migranti italiani. Che rischia di inquinare “la purezza del sangue anglosassone”, che rappresenta l’old stock dei vecchi immigrati. Nel turbinio sociale degli Stati Uniti d’America che mescola e macina lingue e culture e che cerca di mantenere salda l’asticella della dominanza.
Un alloggio, i lavoratori temporanei provenienti dall’Italia, lo trovano grazie alle catene di migranti che li hanno preceduti. Sono vittime di bossismo considerato da Egisto Rossi, rappresentante dell’Italian Bureau ad Ellis Island, “il pedaggio d’obbligo che il nuovo arrivato deve pagare al compatriota già entrato nella conoscenza del sistema e della lingua locale.”
Opinione pubblica e stampa americana riservano trattamento e accoglienza per niente amichevoli ai migranti italiani. Con il Novecento, alcune barriere ostacolano ingressi e arrivi: divieto di assumere stranieri per l’esecuzione di lavori pubblici, aumento della tassa pro capite allo sbarco, fino al 1915 quando la cittadinanza diventa determinante per ottenere la licenza di venditore ambulante. Infine con l’approvazione del Literacy Bill agli analfabeti fu vietato l’ingresso negli Stati Uniti d’America.

Sud America
Al sud va meglio per chi viene dal sud, cioè dall’Italia. L’Argentina e gli altri Paesi dell’America latina hanno riserve di terra inesplorate.
Il differenziale salariale è significativo e il terreno lo si può acquistare a rate annuali. L’agricoltura e il lavoro nel settore primario in Argentina è possibile. L’Argentina ha struttura economica e storia molto diversa quella nordamericana e sembra essere di accoglienza più generosa. La tipologia di migrazione preferita è quella a catena. Secondo il console italiano a Buenos Aires nel 1893 “l’emigrazione più vantaggiosa era quella libera cioè chiamata da parenti e amici perché trova pronta e lucrosa occupazione.” Agricoltura, trasformazione dei prodotti della terra, costruzione di infrastrutture e di manufatti edili: gli italiani lavorano e costruiscono e concorrono ad aprire istituti bancari nel periodo lungo di radicamento, che per loro non è solo integrazione ma soprattutto costruzione di un Paese nuovo.
L’agricoltura è il settore di impiego più interessante anche per i migranti in terra brasiliana. E’ possibile colonizzare le terre, nel vero senso della parola. L’autrice parla delle necessarie attività di disboscamento, a colpi di accetta oppure tramite la più pericoloso ma più veloce tattica incendiaria. Ai coloni l’impegno di costruirsi la casa e l’alloggio per l’avviamento delle attività. Intanto, verso la fine dell’Ottocento sbiadisce lo schiavismo fino a scomparire formalmente. E le migrazioni continuano, attratte da una terra all’apparenza senza confini e dall’orizzonte alto. In Brasile, alla possibilità di lavorare come coloni proprietari si alterna quella di lavorare in una fazenda con un compenso fisso.

Africa
Dal Sud il Sud del mondo è più vicino. I migranti italiani del Sud vanno in Tunisia, in Egitto, in Algeria. Impegnati, alcuni ma non la maggioranza, nella costruzione di infrastrutture; occupati, molti, nel settore agricolo. Vanno e tornano. Ci si sposta per fare cassa. La motivazione economica è trainante. Non tutti tornano. In Tunisia rimangono diverse famiglie, molte provenienti dalla Calabria, e avviano attività agricole imprenditoriali, propongono sul mercato la manualità fine delle donne capaci di tagliare e cucire e di fare abiti che aprono negozi di sartoria. Agricoltura e pesca e raccoglitori di corallo.
Dalla Calabria e dalla Sicilia, fino a che la sirena della nuova meta americana non innesca diverse intuizioni migratorie.

A vela, a vapore. Lungo il mare del nomadismo economico.
Il libro è una ricerca scientifica documentata e precisa degna dello studio e della riflessione di un accademico. Una tessera dell’affresco dedicato alle migrazioni italiane, Francesca Fauri la dedica alla modalità di spostamento dei lavoratori nomadi.
Per mare. Verso le Americhe si parte da Genova. Il capoluogo ligure rappresenta il punto di inizio dei percorsi migratori. E’ il punto fermo del pensiero che anticipa il nomadismo lavorativo. Una volta saliti sulla nave si saluta e si sorride al fotografo confusi nella mischia di migranti. Il viaggio è cominciato. Sulla nave. Il riso e il pianto si confondono sulla veletta umida d’emozione e lacrime che confonde la vista.
Da Genova fino a un certo punto della Storia partivano le vele. E hanno continuato a partire fino alla fine dell‘Ottocento, nonostante il vapore si profilasse già come tecnologia d’avanguardia. Il massiccio numero di migranti è stato un grande affare per il settore dei trasporti e ha rallentato l’introduzione dell’innovazione. Per questo motivo la tecnologia del vapore ha sostituito la vela in tempi lunghi rispetto alle potenzialità e in ritardo rispetto alle flotte di altri Paesi.

I contratti.
Francesca Fauri si spinge a Novecento inoltrato, dopo la seconda guerra mondiale, fino agli anni che anticipano il boom economico e demografico. Quando l’Europa, nella sua sinergica e cooperante funzione di programmazione, è già diventata protagonista.
L’autrice fa riferimento alle quote di lavoratori stranieri ammessi al lavoro e al concetto di libera circolazione dei lavoratori in terra europea. E al laborioso intento di creare condizioni di mobilità tutelate e tutelanti per i lavoratori, fra veti e preoccupazioni e potenzialità di impiego professionali. Al tema dedicata approfondimenti e attenzione, per l’importanza e per la complessità.

E la storia si ripete.
Dall’inizio del fenomeno globalizzazione al boom economico fino al 2025 il passo è breve. In mezzo ci sono flussi di catene migratorie dall’Italia verso il mondo tutto. E dai Paesi terzi verso l’Italia e verso l’Europa.
La migrazione, nomadismo lavorativo oppure ricerca di protezione che sia, si incardina nella storia dell’umanità. E’ un fenomeno strutturale. Rivedere il film delle migrazioni passate permette di guardare con occhi diversi i migranti di oggi.
Francesca Fauri, Storia economica delle migrazioni italiane, Il Mulino, Bologna, 2015


(Foto tratta dalla copertina del libro)

 

 

 

 

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